Spesso, in chi scrive versi e ha la fortuna di conoscere qualche lingua almeno quanto basta per leggere e gustare poesia in versione originale, si fa avanti a un dato momento la tentazione di cimentarsi nella rischiosa impresa del tradurre. Pur sapendo, ancor prima di iniziare, che il proprio mettersi a servizio del testo non potrà mai rendere, di quel testo, la meravigliosa e unitaria perfezione. Voler fare mediazione linguistica, specie nella poesia, richiede sempre un atto di umiltà: sappiamo che per quanta cura e per quanto amore metteremo nell’impegno, produrremo comunque una diminutio.
Perché dunque arrischiarsi a una tale impresa? Perché misurarsi, da poeti o poete, con le grandi voci che ci hanno preceduto, avvinto, ammaestrato? Talmente immense, oltretutto, da incutere un religioso timore.
Per amore di quelle voci e della materia, indubbiamente, di quel ritmo e di quella musica – armonica o disarmonica, piana o sincopata – che al di là del messaggio ne hanno fatto poesia. E, nel mio caso, per quell’attitudine che ho recentemente definito come “poetica dell’amorosa costrizione”, una scelta che sottende la mia scrittura anche quando si esplica in prosa.
Il concetto è nato all’interno del mio recente lavoro narrativo, Dodecapoli (LietoColle 2010), dove l’amorosa costrizione è data dalle piazze e dalle architetture alle quali ho coniugato le storie e l’interiorità delle protagoniste dei dodici racconti del libro. “Nulla nel mio lavoro di scrittura nasce o procede a caso – scrivevo allora – come nella ricerca rigorosa e amorosa della mistica è nella costrizione che la parola cerca la strada”. Perché se ha una qualche ambizione creativa, la scrittura, è libertà o addirittura infrazione, ma ragionata. Lo insegna, per fare un esempio fra tutti, la perfetta meraviglia formale dei sonetti di Arthur Rimbaud.
Anche la traduzione è una costrizione amorosa. E se in Dodecapoli a segnare la strada erano le architetture e gli spazi, in questo lavoro a costringere gentilmente sono state le rose e, con loro, la struttura formale in cui, da alcune grandi voci poetiche, sono state racchiuse.
Perché ho scelto “la rosa” non occorre spiegarlo. Emerge, in molti e diversi petali, dal percorso di lettura di questo piccolo libro: vanitas talmente potente, “la rosa”, da aver rovesciato nel suo opposto, in quanto segno, la simbologia di cui è stata, nei secoli, caricata. Mi sono affidata, per sostanziare la loro grazia, al giardino di Walter Branchi, rodologo gentile e nella sua ricerca lietamente rigoroso che, delle rose, sente da sempre la voce e la musica.
In amorosa costrizione, osservando e annusando le sue specie, come nel balzo metamorfico di Emily Dickinson ho voluto trasformare ogni poesia in una rosa. E nell’epoca in cui tutto può essere infranto e permesso, in cui anche la parola rimbomba e risuona nella più ampia, talvolta perniciosa “libera” approssimazione – etica, comunicativa, stilistica – ho voluto rispettare, dei componimenti scelti, non tanto e non solo il senso, quanto la loro stessa costrizione amorosa: la forma, il ritmo, la rima, la musica.
Non è stata impresa facile. A sorreggermi ho avuto dalla mia una buona dose di ostinazione, l’incrollabile fiducia nella tacita attesa e nei molti, fertili rivoli di parola che affiorano da quel fare silenzio e vuoto. A guidarmi sono state le rose: quelle di Walter Branchi, che ringrazio per le sue foto d’archivio e per i preziosi consigli; e quelle dei poeti e delle poete che, nei secoli, della marcescibile/immarcescibile rosa hanno cantato e scritto.
Laura Ricci, introduzione a e Io sono una Rosa