Frida Kahlo, notevole pittrice messicana (1907-1954) che una moovie di J. Taylor ha reso a suo tempo molto popolare e di cui è in corso, fino al 31 agosto, una bella mostra alle Scuderie del Quirinale, incarna, della passione del vivere, molti e contrastanti aspetti.
Nata a Città del Messico nel luglio 1907 – ma lei amava dire nel 1910, non tanto per civetteria anagrafica quanto, forse, per far coincidere la sua nascita con l’anno della rivoluzione messicana – a sei anni fu colpita da una forma di poliomielite che le lasciò una gamba, la destra, molto più sottile dell’altra dandole, fin dall’età più tenera, la sensazione di una sua permanente inguaribile diversità. Non per questo schiva, comunque bella, volitiva, affascinante e ribelle si legò, durante gli anni della scuola superiore, al gruppo di studenti più rivoluzionario e fu in quel periodo che conobbe il futuro marito, il famoso pittore Diego Rivera, a cui era stata commissionata una pittura murale nell’auditorium della Scuola Nazionale Preparatoria.
A 18 anni, nel 1925, Frida subì quello che doveva essere l’evento dolorosamente fondamentale della sua vita, un grave incidente di autobus, che fratturò paurosamente tutto il suo corpo e, dopo enormi sofferenze e un lungo periodo di immobilità, le lasciò serie conseguenze per tutta la vita.
Fu allora che per sfuggire alla noia, per reagire e per esorcizzare i suoi fantasmi, iniziò a dipingere e decise di fare, della pittura, la sua professione. Cominciò a frequentare più da vicino gli ambienti artistici della città e, nel 1929, sposò Diego Rivera. La loro, definita, per l’aspetto antitetico, l’unione tra un elefante e una colomba, fu una relazione intensa e appassionata, per alcuni versi burrascosa (segnata da un breve provvisorio divorzio nel 1940), sincera e leale, anticonformista e creativa, in cui amore e arte, dolore ed esaltazione, miserie e grandezze si intrecciavano. Amanti e amici, in alcuni brevi momenti nemici, vulcanici, furono un sostegno, un pungolo e uno stimolo reciproco; e di certo furono l’arte e l’amore a rendere unica e vitale l’esistenza difficile e dolorosa di Frida, permettendole di rovesciare in un’affermazione del suo diverso sé quello che avrebbe potuto essere un fattore di annientamento.
È pur vero che man mano che la sua malattia e la sua invalidità progrediscono, costringendola a molte operazioni e alla panacea provvisoria dell’alcol, delle sigarette e delle droghe, l’inquieta ferita sospensione di alcune sue tele aumenta, fino a lasciar prevedere l’irreversibile infezione finale, l’amputazione della gamba destra e, nel luglio 1954, la morte: il suicidio, si sospettò. Ma se le ultime parole del suo diario consegnano il desiderio dell’umana fine – Spero che andarsene sia gioioso e desidero non tornare mai più – una bellissima precedente affermazione fa dono della diversa eternità dell’artista – perché dovrei preoccuparmi della mia gamba se ho le ali per volare? – segnando quell’oscillazione fra volo e caduta, quella tensione estrema del ridere in lacrime che fu sempre la sua vita.
Nonostante il dolore, Frida amò uomini e donne, cantare, scherzare, stupire, fare politica, tingere di colori forti la sua esistenza e il suo lavoro. Leon Trotski, che fu suo amante, venne ucciso mentre era ospite, con la moglie, di lei e di Diego.
Nella nostra cultura, percorrendo i secoli la parola Passione si è un po’ allontanata dal senso primitivo del patire, per caricarsi del senso più vitale dell’intensità dell’esistere. Ma per Frida la passione del vivere, che fu anche entusiasmo ed esuberanza, da quell’antica radice di patimento non è stata mai disgiunta.
La pittura dell’identità
Come pittrice Frida Kahlo è stata talvolta assimilata ai surrealisti e, da loro stessi, rivendicata. Ma l’ eccentricità e le caratteristiche esotiche della sua pittura hanno, in realtà, un’altra radice e un altro scopo e lei stessa, per distanziarsi da ogni scuola, sottolineava, minimizzando volutamente la sua arte, come non avesse fatto altro che dipingere, per sé e a partire da sé, pochi soggetti: le idee fisse della sua ricerca d’identità e del suo singolare esistere.
I suoi dipinti riflettono le sue sofferenze interiori, il suo percepirsi come invalida, o come donna non pienamente compiuta per l’impossibilità di essere madre; liberano i suoi pensieri, le sue emozioni e le sue paure, sospendendole a simboli che hanno il compito di raccontare le pulsioni più intime e segrete.
Così può ritrarsi con la colonna fasciata e costretta
o con lo sgargiante chiassoso costume messicano ma su una sedia a rotelle
o, come nel Self-Portrait with Copped Hair, sotto sembianze maschili circondata dai capelli recisi
o può dipingere il suo letto tra simboli di sofferenza personale
e se stessa che, in vari modi, gronda sangue, come nella ricostruzione della sua nascita – My Birth – o in quell’esplorazione complessiva delle sue radici e di sé che è What the Water Gave Me
in cui, utilizzando anche immagini di altre sue tele, ritrae nell’acqua i suoi genitori enigmatici, una pietà con figure esclusivamente femminili e il suo piede destro deforme e sanguinolento.
Talvolta la sua sofferenza non viene dalla malattia, ma, come in The Two Fridas, dalla ferita d’amore.
Il ritratto a sinistra, con il sangue dell’arteria recisa sul vestito candido, riflette la Frida dolente che Diego ha lasciato, l’altro la Frida che lui aveva amato.