Il cane è Flush, sensibile ricettivo cocker spaniel; ed Elizabeth Barrett (1806-1861), celebre poeta inglese, è la padrona.
Di Elizabeth Barrett Browning esiste, alla National Portrait Gallery di Londra, un bel ritratto: ella è lì – il viso circondato da lunghi morbidi riccioli scuri, la bocca grande ed espressiva, le sopracciglia arcuate e folte – a interrogarci con dolci lucidi occhi di spaniel; e di lui, il suo cocker compagno, esistono le testimonianze poetiche ed epistolari di lei.
Ma esiste, soprattutto, il genio leggero di un’altra donna scrittrice che, cogliendo l’innegabile somiglianza tra padrona e cane, immergendosi nelle testimonianze letterarie e materializzandole in vita, ha saputo raccontarci dell’uno e dell’altra con una magistrale narrazione rovesciata.
Virginia Woolf scrisse Flush nel 1933 e, non a caso, vi appose il sottotitolo di “Biografia di un cane”. Perché è Flush che si anima e si muove sulla pagina, è lui il protagonista, dal suo irrompere vivace di cucciolo nella vita della padrona, fino alla morte, nel sopore apparentemente solito accanto a lei; e sono i suoi occhi amorosi e il suo sentire canino che, nel gioco incrociato della scrittura, ci consegnano, di lei, un originale memorabile tracciato sentimentale.
Costretta da una malattia forse immaginaria e da un padre tiranno a vivere chiusa in casa, tra sofà e poltrona, Elizabeth Barrett soffre e si consuma, consacrando la poesia a surrogato della vita; e così si costringerà Flush, simbioticamente, per amore e devozione, sacrificando la libertà originaria della sua stirpe cacciatrice per restare ai piedi della padrona.
Attraverso lo sguardo e le riflessioni del fulvo attento esistere di Flush penetriamo nel languore di Elizabeth, nella sua morbida tristezza aristocratica, in quegli anni quaranta dell’ottocento romantico in cui, come Byron dettava, consunzione e pallore erano il segno della poesia; attraverso Flush vediamo la sua diafana stanchezza dopo le visite, il suo armeggiare su un foglio – la scrittura delle lettere – con una strana bacchetta nera in mano, la sua complice quasi giocosa inappetenza che riserva a lui i bocconi migliori, nel tenerissimo misterioso rapporto cane/ padrona.
Finché emozione, irrequietezza e avventura irrompono, risvegliate dall’impeto del giovane poeta Robert Browning, nella quieta vita dei due reclusi. Prima un serrato scambio epistolare, che Flush registra come un leggere e uno scrivere nervoso e sensibile, diverso; poi l’ incontro in quella che il cocker, in una prima fase di gelosia, avverte come orrida primavera. Ma anche un miglioramento, un cambiamento positivo: Miss Barrett ricomincia a camminare, rivive, esce, mangia; e Flush torna agli antichi desideri di caccia, sogna di lepri e fagiani e pernici tra l’erba alta.
Mutati, in sussulto e in movimento, nonostante l’amore di nuovo uniti nell’amore, cane e padrona fuggono con Browning dalla casa paterna: verso l’Italia, il sole, la felicità, la salute.
Cane e padrona sono sepolti a Firenze, lui nelle cantine di casa Guidi, dove i Browning abitarono, lei nel Cimitero degli Inglesi. E se Virginia Woolf non ce l’avesse raccontata tramite il sentire di un cane, di certo questa storia sarebbe stata troppo e ovviamente romantica.
Ma v’è di più: Virginia riesce a insinuarvi anche un sottile velo di stampo sociale e femminista. A un certo punto Flush viene rapito da una banda di taglieggiatori, come realmente accadeva nella Londra dell’epoca. Padre, fratelli e lo stesso Browning vorrebbero che Elizabeth, per non cedere al male e all’ingiustizia, abbandonasse il cane e non pagasse il riscatto. Ma lei non si lascia intimidire, segue il suo cuore, contraddicendo padre, fratelli e futuro marito va a recuperare il suo spaniel. E nel malfamato Withechapel scopre – lei in poche ore, il cane in cinque giorni – più realtà di quanta ne abbia conosciuta in un’intera protetta vita.