Il saggio è stato pubblicato nel N. 37-38-39-40 (mag. 2013 – ago. 2014) di “Lettera Orvietana”, Quadrimestrale d’informazione culturale dell’Istituto Storico Artistico Orvietano.
Tra il Duecento e il Trecento molte figure di donne, che potremmo definire mistiche o profetiche, popolano in modo singolare l’Europa della cristianità, stabilendo e intrattenendo con Dio un rapporto senza intermediari di straordinaria confidenza e libertà e fondando quel pensiero che, sia pure in modo successivamente più rarefatto, continuerà a percorrere i secoli fino all’epoca moderna, ove figure come Simone Weil, Etty Hillesum e María Zambrano – tanto per citare le più note – testimoniano ancora di questo pensiero che potremmo chiamare “mistica femminile” o, come suggerisce la filosofa Luisa Muraro, “teologia in lingua materna”.
In pieno Medioevo l’Umbria e la vicina Toscana registrano la non infrequente fioritura di figure femminili che hanno nell’immedesimazione al Cristo crocifisso il proprio esempio, figure in cui convivono esperienza mistica e dedizione sociale e che non avvertono più la necessità del pieno ritiro monastico per il proprio cammino di perfezione, ma perseguono piuttosto forme di vita laica.
Si tratta di un’indubbia novità nel Duecento e nel Cristianesimo della regola cenobitica, alla quale non è forse estraneo il grande segno impresso da Francesco d’Assisi. Francesco non aveva certo elaborato delle dottrine, ma aveva compiuto un’esperienza, assumendo l’umanità – tutta l’umanità – come manifestazione del divino e operando un cambiamento di coscienza che sottrae il credo cristiano alla sistemazione dogmatica e organizzativa che fino ad allora, in contrapposizione al pensiero pagano, aveva dovuto sostenere. Egli non contempla più Dio nell’alto dei cieli, lo conosce piuttosto guardando i lebbrosi; la sua contemplazione diventa l’imitazione del Cristo
povero, cioè dell’uomo-Dio che è possibile imitare appunto perché totalmente uomo. Per questo la povertà diventa il segno del vero cristiano; e, con la povertà, la laicità almeno potenziale. Obbediente ma libero, Francesco non si fa monaco, resta nella forma da lui inventata di “minore”, di chi vive tra gli altri uomini e si considera nei fatti servo di tutti.
Ai francescani era stata vicina Umiliana de’ Cerchi (1219-1246). Rimasta laica anche dopo la vedovanza da un tal Bonaguisi che aveva dovuto sposare contro la sua volontà, si dette a un’opera assistenziale per le case e le strade di Firenze, tramandata per instancabile tenacia. Privata della dote per aver rifiutato un secondo matrimonio, si ritirò in una torre del nativo Castello di Acone, eremita e visionaria in casa e, al tempo stesso, soccorritrice in città.
Secondo la Vita che ne scrisse il francescano Vito da Cortona, in lei sembra emergere chiaramente la coscienza
che il non entrare in un ordine religioso sia il segno di un tempo nuovo, in cui nessuno può avere più alibi per rifiutare l’amore di Cristo: se anche una laica è visitata da visioni mistiche, veramente il cammino di perfezione può essere per tutti.
Laica era rimasta anche Margherita da Cortona (1247–1297), pur trovando consiglio e aiuto presso i francescani, così da entrare nel loro Terz’Ordine, ora denominato Ordine Francescano Secolare. Aveva fatto una vita per l’epoca molto irregolare: fuggita di casa, si era unita a un uomo, Arsenio, e ne aveva avuto un figlio; quando Arsenio, nove anni dopo, era rimasto ucciso in una partita di caccia, sola, respinta dalla famiglia di origine, si era ritirata a Cortona sottoponendosi a una vita di durissima penitenza e dandosi, insieme, alla carità verso poveri e ammalati, così da costruire un poco alla volta una struttura assistenziale che la porterà alla fondazione di un ospedale.
Anche Margherita conosceva, poco fuori dalla città, l’isolamento eremitico, tuttavia desiderosa di romperlo di fronte a ogni bisogno, lasciandosi coinvolgere non solo dalle miserie degli emarginati ma pronta a intervenire, politicamente, nelle lotte delle fazioni cittadine per cercare di comporle.
Parimenti laica si mantenne Angela da Foligno (1248-1304) – anch’ella aderente al Terz’Ordine francescano –
che, dato tutto ai poveri, visse di visioni e dialoghi con l’amato Gesù crocifisso, compiendo un singolare cammino ascetico e guadagnandosi una piccola cerchia di discepoli.
E laica restò Vanna da Orvieto (1264-1306), nata nel villaggio di Carnaiola da umili contadini. Rimasta orfana di ambedue i genitori fu presa in casa ad Orvieto, ancora bambina, da una parente. Per non essere di peso Vanna si mise a lavorare da sarta e ricamatrice, occupando così tutta la sua vita, silente e paziente, infaticabile e serena. Non bella, non di buona salute, non dotata di alcun bene di fortuna, si fece terziaria domenicana, vivendo in una comunità di donne devote e operose: sempre raccolta nel dialogo con Cristo e sempre pronta a soccorrere non gli indigenti, cosa a lei impossibile non possedendo nulla, ma i poveri di spirito, gli smarriti e gli incerti, con una
straordinaria capacità di illuminazione e di guida.
A Orvieto erano allora numerosi gli eretici, in particolare i Catari, che seguitavano a propagare le loro negazioni sull’eucarestia. Le preghiere di Vanna, negli ultimi anni, furono dedicate specialmente a questi erranti e alla devozione eucaristica, sotto il cui segno era nata, l’anno dell’istituzione del Corpus Domini, avvenuta proprio a Orvieto per volere di papa Urbano IV che, nel palazzo vescovile, al tempo vi dimorava.
Alcuni anni più tardi, nel 1347, nasceva a Siena Caterina Benincasa, che, con il suo straordinario esempio,
avrebbe incarnato in modo ben più forte questo modello di perfezione e di autorevolezza laica. In lei, come
nelle altre testè nominate e come in tutte le figure che percorrono la mistica femminile, quello che sorprende
e può essere ancora oggi modello per l’affermazione dei saperi femminili è l’estrema libertà dell’esperienza,
l’autolegittimazione di una diversa forma di conoscenza che, senza precedenti imposti, cerca, a partire da sé e da un dialogo senza intermediari, un senso e un linguaggio che aderiscano al sentire e all’accadere; e la capacità e il coraggio di rapportarsi senza remore, forti di questa realtà visionaria, alla società e, come nel caso di Caterina, ai potenti, all’autorità e al potere.
Caterina da Siena nasce dunque nel 1347, anno in Europa della peste nera, da Giacomo Benincasa tintore e
dalla moglie Lapa. Era stato un parto gemellare, in una famiglia numerosissima – ben venticinque figli – anche
per quei tempi. Fra tutti Caterina si distinse presto per l’inclinazione spirituale e il forte carattere. Ancora bambina cominciò a praticare forme estreme di ascetismo, digiuni, penitenze, veglie, e a isolarsi, pur in casa, come una eremita. La sua caparbietà ascetica, l’anorresia radicale non erano tuttavia masochismo o volontà di autodistruzione, ma una forma di esaltazione gioiosa, dovuta all’amore di cui si sentiva investita, a quell’assolutezza di felicità propria dell’esperienza mistica. Singolare era – ma non unico all’epoca – il fatto che svolgesse questo suo ascetismo tra le mura domestiche, senza mai sentire il bisogno di ritirarsi in uno dei conventi di suore che da più di un secolo sorgevano in tutta Europa nello spirito mendicante di San Francesco e di San Domenico.
Tra i 15 e i 16 anni Caterina esce tuttavia dal suo isolamento e si dedica ad opere di misericordia. Viene iscritta
alle Mantellate, un gruppo di signore benestanti e spesso vedove che aderivano come laiche al Terz’Ordine di
San Domenico e che praticavano una regola comune, l’elemosina e l‘assistenza. Ma la tradizione vuole che il carattere così assoluto di Caterina, e forse anche la sua modesta condizione sociale, dessero nel sodalizio qualche fastidio. Si dedicava infatti agli ammalati e agli emarginati di ogni condizione ed età senza alcuna precauzione mondana, con un’autenticità e una totalità di dedizione che sbalordivano e scandalizzavano le ben più prudenti dame.
Fin verso il 1370, anno in cui compie 23 anni, la sua vita si divide tra rigori e visioni in casa e la dedizione esterna
in città. Nel frattempo il papato, sconvolto da varie vicissitudini nel passaggio dal XIII al XIV secolo, aveva assai indebolito il suo ruolo sia spirituale che politico. Roma era di nuovo divisa dalla lotta tra potenti famiglie: Caetani contro Colonna; Bonifacio VIII contro i francescani e i celestini – seguaci del Celestino V del gran rifiuto, papa-monaco per pochi mesi – e i Colonna a proteggerli; Bonifacio a difendere i privilegi del clero in Francia, contro Filippo il Bello che, stretto dalla guerra con l’Inghilterra, ha bisogno di tassare tutti; fino allo scontro del 1303, alla cattura del papa e alla sua umiliazione ad Anagni per mano dei Francesi e dei Colonnesi.
Poco dopo il papa francese Clemente V, che già nel 1305, dopo la sua elezione a Perugia, si era stabilito in Francia, trasferisce ad Avignone la sede pontificia (1309). Iniziano così alcuni decenni in cui il ruolo universale del papato si affievolisce per la pesante tutela dei re di Francia e, in Italia, se ne indebolisce il ruolo politico, per le pressioni di indipendenza di molte città, da Bologna, a Perugia, a Firenze. Il ritorno a Roma di Urbano V, salutato da alcuni come una svolta possibile della difficile situazione, non è che un breve e ininfluente intervallo: nel 1370 il papa riprende la via di Avignone.
È proprio in questa occasione che la vita di Caterina cambia radicalmente. La giovane donna ha una visione, che le conferisce nuova forza e diversa autorevolezza e che muta il suo ruolo sociale. Non più la cella rifugio della sua casa e l’operare misericordioso nella città; ora, come lei stessa dirà, la sua cella eremitica sarà solo interiore, mentre la sua esistenza sarà proiettata nella vita pubblica e nella storia. Si sente guidata ad affrontare il mondo e diventa una donna immersa nella politica che tiene testa, in Italia come ad Avignone, a signori, cardinali, soldati, al papa Gregorio XI stesso, che con suppliche, preghiere e comandi in nome di Dio esorta ad operare una riforma
che esuli dalle cose temporali – il giudizio da lei espresso sulla Chiesa e i suoi costumi è durissimo – e a riportare il
papato a Roma.
Il fatto appare certo straordinario: del tutto ignorante affronta con la parola, con le lettere, con l’azione politica i maggiori problemi del momento, e con un coraggio e una lungimiranza che sono davvero sorprendenti. Per il carattere della sua esperienza, il titolo che meglio potrebbe definirla è quello di “profeta”.
È noto come siano andate le cose. Caterina contribuì senza dubbio a determinare Gregorio XI a riportare la sede a Roma: di fatto, nonostante le opposizioni francesi, nel 1376 il trasferimento si realizzò. Ma l’unità della Chiesa andò subito dopo in frantumi e con essa la possibilità di un papato universale. Morto Gregorio nel 1378, gli succedette Urbano VI, un papa italiano, e a lui fu contrapposto il francese Clemente VII.
Caterina vedeva così fallire quanto aveva ardentemente desiderato e, riguardo alla pace da predicare e favorire,
tema al quale si era incessantemente dedicata, nessun margine di possibilità, giacché addirittura due papi si facevano guerra. Stremata dal rigore ascetico, dagli impegni politici, dal desiderio del cielo, dal contrasto
tra visione e realtà, morì a Roma il 29 aprile 1380. Se per una figura come la sua – emblema e simbolo fuori dal
comune tempo mortale – l’età può avere una qualche importanza, aveva trentatre anni: gli anni di Cristo.
Aveva trascorso i dieci anni della sua attività profetica circondata da una singolare comunità di uomini e donne, che la accompagnavano nei suoi viaggi, scrivevano le lettere che lei, analfabeta, dettava, ascoltavano i suoi insegnamenti, attratti e dominati dal suo ardore e dalla sua forte personalità. Si era mossa tra le liti delle città italiane e delle loro fazioni, si era occupata di politica ma senza il minimo interesse al potere. Anche nei momenti di sconforto è come divorata da una sorta di amore universale. Avverte fino in fondo il suo insuccesso, ma la forza che la spinge, la voce divina che sente parlare nel suo intimo, è troppo forte perché possa arrendersi e tacere.