Nell’orrore dell’Olocausto il messaggio d’amore e di speranza di una donna eccentrica
“La miseria che c’è qui è veramente terribile – eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci posso fare niente, è così, è di una forza elementare – e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire, ma non dobbiamo soccombere. E se sopravvivremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita”. (Etty Hillesum)
“Si può essere un balsamo per molte ferite”: Etty Hillesum, cuore pensante dell’Olocausto
Nel 1941 Etty Hillesum è una giovane sensibile colta ebrea olandese di 27 anni, appassionata di letteratura e filosofia, desiderosa di diventare una scrittrice. Contraddittoria, interiormente inquieta, avida – come lei stessa afferma – di conoscere tutto della vita e di penetrare dappertutto, non disposta a rinunciare a questa volontà di scavare a fondo e tuttavia alla ricerca di un singolare equilibrio che le permetta di moderarne gli effetti emotivi – quel mal di stomaco, quell’oppressione, quel senso di aver un nodo dentro e di venir schiacciata sotto un grosso peso – entra in contatto con Julius Spier, carismatico terapeuta di cui si innamora, e forse spinta da questo incontro inizia a scrivere un diario, a fare un lavoro di ascolto attento di sé e di libera autentica autoformazione. Le pagine del suo diario, che vanno dal marzo del ’41 al settembre del ’43, disegnano un itinerario spirituale di grande bellezza e valore e coincidono con gli anni più cupi del nazismo e della persecuzione ebraica, così che i quaderni di Etty si coniugano necessariamente con quegli eventi, visti e sentiti tuttavia in relazione ai sentimenti che provocano in lei, alle sue scelte e alla sua crescita interiore.
Il suo atteggiamento è quello di un ascolto minuzioso, di un’estrema apertura e di una totale ospitalità: la vita privata, l’amore, le inquietudini, la sua libertà di giovane donna non preoccupata della morale convenzionale, la storia, la politica, la guerra e lo sterminio la pervadono, si sommano, ne affinano le capacità di accogliere percezioni ed emozioni. Man mano che le restrizioni dell’antisemitismo incalzano sempre più pesanti, lo spazio interiore di Etty si dilata con sempre maggiore libertà e leggerezza, tanto da farle percepire ed esercitare bene, bellezza e amore pur tra le atrocità di cui rende conto e testimonia. Etty – pensatrice sconvolgente e discussa per aver osato affermare che nei campi nazisti c’è anche il bene, da alcuni accusata di imperdonabile passività – denuncia con asciutta precisione quanto di atroce accade, ma sempre tesa a rintracciare, piuttosto che un’esperienza di orrori, frammenti di vita e di armonia fin nelle minime possibili briciole. E mentre molti dubitano, tra quell’orrore, dell’esistenza di Dio, lei, definendolo non confessionalmente la parte più profonda di sé, in controcorrente lo trova.
Nella sempre più stretta morsa della persecuzione, Etty Hillesum aveva ottenuto un posto nel Consiglio Ebraico di Deventer: vi lavoravano ebrei che, più o meno in buona fede, pensavano di poter aiutare altri ebrei collaborando con i nazisti. Etty ne comprende l’ambiguità, la convinzione fallace di avere un qualche potere e, ormai forte di sé, decide di mettersi nel luogo vero in cui si compie il destino del suo popolo, là dove può veramente esercitare i guadagni del suo percorso, i suoi saperi e la sua autorevolezza.
Desiderosa di essere, secondo le ultime parole del suo diario, un balsamo per molte ferite, nel ‘42 si reca volontariamente nel campo di smistamento di Westerbork, restandovi fino al 7 settembre del 43, data della sua deportazione ad Auschwitz, dove il 30 novembre muore. Anche nelle Lettere da Westerbork, pur osservando e percorrendo un’umanità straziata, Etty non sottolinea la perdita di ogni pietas, ma ci parla di relazioni, di pensieri, di lavoro sui sentimenti di odio, rancore, paura, di fiducia nell’umano, della bellezza del cielo e dei campi di lupini oltre il fango e il filo spinato, dell’eternità della poesia – il suo Rilke – d’amore e di amicizia. Voleva essere un balsamo, porsi come il cuore pensante di quelle baracche: e di certo lo fu, da molti ricordata come figura luminosa.
Come sottolinea Laura Boella in un suo saggio – Le Imperdonabili – la passività attribuita a Etty Hillesum si esercita in raccoglimento su di sé, concentrazione e silenzio, nutrimento spirituale attinto dai libri, dallo studio, dalle persone, dai sentimenti di riconoscenza e di gratitudine, da un lucido senso di realtà. Più che passività, forse un modo diverso di essere attiva: forza leggera e ostinata, mi piacerebbe chiamarla, quella che ha permesso a una donna singolare di vivere con intensità – la vita bella e ricca di significato, la chiamava lei – in un momento storico in cui si intrecciavano sopravvivenza e annientamento, così da tracciare una testimonianza di sé e del suo tempo stupendamente eccentrica, pervasa d’amore, di grazia, persino d’ironia piuttosto che di condanna o di paura.