Vorrei dedicare la giornata di questo 2 giugno 2015, Festa della Repubblica italiana, al primo voto generalizzato delle donne nel nostro Paese. Per molti anni l’ho fatto dal quotidiano web di cui ero editora e direttora, oggi lo faccio dal mio blog. Il bello di internet, e dei social, è che comunque puoi diffondere il tuo pensiero.
Ogni 2 giugno, dunque, mi viene da pensare a quel particolare giorno del 1946, all’ingresso ufficiale nella vita pubblica del sesso fino ad allora istituzionalmente negato. Che, d’altra parte, si era da tempo distinto, almeno con le sue punte di diamante, nell’elaborazione del pensiero politico e, nell’ancor recente guerra, nel ruolo attivo svolto da tante donne più comuni sia nella Resistenza sia nella società, al posto di tanti uomini impegnati nel secondo conflitto mondiale.
In realtà il diritto di voto era stato esteso alle donne il 1° febbraio del ’46 e, prima del referendum istituzionale del 2 giugno, avevano già partecipato nella primavera alle elezioni amministrative. La voglia di contarle, e anche quella di “averle” dalla propria parte, si fece però sentire in modo più imperioso e consistente in occasione del quesito referendario: monarchia o repubblica? Fu allora che “il suffragio universale fu esteso alle donne”. Frase davvero singolare, perché se il suffragio fosse stato sostanzialmente universale non avrebbe potuto escludere metà della popolazione italiana. L’involontario ossimoro è di Maria Federici, dirigente all’epoca del Cif (Centro italiano femminile). Ma la sensazione di essere figlie di un dio minore era così simbolicamente interiorizzata, che persino le donne che facevano politica attiva scivolavano su lapsus linguistici significativi come questo. Del resto accade ancora oggi, una delle cose più difficili da gestire continua a essere, per il sesso femminile, la lingua: donne ormai ovunque, ma ancora troppo poco consapevoli che proprio attraverso lingua e linguaggio passano l’esistenza e la presenza simboliche.
In quel 2 giugno 1946 furono 13 milioni di italiane a recarsi alle urne, sorprendendo chi pensava – e erano in molti – che di queste faccende al gentil sesso poco importasse. Nelle Costituzioni europee l’esclusione delle donne dal diritto di voto non era quasi mai esplicita e nello Statuto Albertino si recitava che “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono eguali dinanzi alla legge”. Le donne, dunque, a rigor di logica non avrebbero dovuto essere escluse né dal voto né dal candidarsi, ma a nulla erano valsi i tentativi di iscriversi nelle liste elettorali locali e i ricorsi presentati alla magistratura. I giudici, da quanto è possibile estrarre dalle loro sentenze, consideravano bizzarro, di scarso prestigio e di nessuna utilità il prospettarsi di un qualche governo femminile.
Nel nostro Paese fu il formarsi dei grandi partiti di massa, la DC e il PCI, e delle loro rispettive organizzazioni femminili – il Centro italiano femminile e l’Unione donne italiane – a creare le condizioni per l’allargamento del voto. L’impegno e la paziente opera di decostruzione di queste nostre simboliche progenitrici, a cui dobbiamo gratitudine, cominciò a sgombrare il campo dal pregiudizio; pur se personalmente penso che, nel dopoguerra molto deprivato di popolazione maschile, ad aprire la strada al voto femminile fu anche il realistico “bisogno” del recarsi alle urne e della scelta delle donne che ammorbidì le resistenze.
Allargando il campo all’oggi, pur se negli anni e specie in questi ultimi la presenza femminile in politica si è consistentemente allargata, dopo quasi settant’anni in Italia siamo ancora a chiederci perché, una volta raggiunta la sospirata scheda elettorale, le donne abbiano sostanzialmente lasciato la gestione della politica nelle mani degli uomini. Disinteresse nei confronti dell’esercizio del potere, attaccamento a un’esperienza identitaria storicamente legata al privato, rifiuto di misurarsi con una politica troppo modellata al maschile? È certo che le percentuali delle donne nel Parlamento italiano sono state sempre piuttosto esigue, e paradossalmente la punta più bassa è stata toccata proprio negli anni in cui il femminismo occupava le piazze. Ma le femministe ritenevano che la pratica politica delle donne dovesse riflettere la differenza di genere, che passasse attraverso il confronto di esperienze e la crescita della forza autonoma delle donne piuttosto che attraverso i partiti politici.
Oggi, giustamente, lo scarso numero di elette nei luoghi della politica è vissuto come un disturbo della democrazia, come una ferita della rappresentanza. Se le donne in politica sono poche, si pensa, vuol dire che da qualche parte agiscono ancora forme striscianti di discriminazione che bisogna bilanciare con azioni positive. E si tende ad agire, in alcuni partiti e nelle richieste di organismi e associazioni, con l’impostazione più o meno ufficialmente disciplinata delle quote rosa.
Non mi stancherò mai di dire che non è esaustiva e che non è abbastanza, che non possiamo scimmiottare le società nordeuropee, dove le quote esistono da tempo e non solo in politica, senza tener presente che è ben diverso il sostrato sociale e, soprattutto, quello culturale e che, quelle società, sono espressione di una rivoluzione culturale e sociale di genere da noi non ancora compiuta. Che ce ne faremo, noi italiane, di quel 50% se non cambiano – ancora di più, qualcosa è stato fatto, non siamo proprio a zero – la società e il costume? Se dovremo reggere lo stress e il disincanto di luoghi che non sono anche a nostra misura, se saremo ancora costrette a districarci nei giochi dell’astuzia e del potere piuttosto che nell’agio della trasparenza e dell’autorevolezza?
Per fortuna, dopo anni in cui le parole “femminismo” e “femminista”, insieme ad altre di grande valenza politica, sembravano diventate imbarazzanti, si sta tornando, anche in Italia, a qualche buona riflessione di genere, a usarle e rinnovarle senza remore anche in ambienti più allargati delle nicchie in cui, quella riflessione, è stata sempre praticata (vedi le filosofe dell’Università di Verona o i gruppi della Libreria delle donne di Milano). Per fortuna, anche attraverso tante forme di associazionismo, di necessari gruppi professionali femminili, di tavoli politici di lavoro, le donne stanno riprendendo in mano, in modo più visibile, l’elaborazione di pensiero e di pratiche che pongono all’attenzione la necessità della loro presenza nei luoghi chiave e nelle posizioni dirigenziali delle istituzioni e della società, e l’importanza di starci con una consapevolezza di genere. Dopo il tempo del necessario separatismo, lo stanno oggi facendo insieme agli uomini, anche loro, almeno nelle punte più sensibili e avanzate, diventati più consapevoli del problema. Non devono “salvare il mondo”, non sono né migliori né peggiori dell’altro sesso; semplicemente devono prendersi – tranquillamente e umanamente, non per concessione ma per desiderio, per forza condivisa e consapevolezza – quella mezza porzione di mondo a cui hanno diritto e che ha bisogno della loro azione e del loro sguardo.