Schegge di luce
Tratto da Insopprimibili vizi
AM Edizioni Marotta, 2004
Gli stralci in corsivo sono tratti liberamente da “La passione secondo G.H.” di Clarice Lispector
Se vuoi partecipa all’iniziativa #GreciaPerMe lanciata da La Stampa. Io partecipo.
Eccola questa lingua di ghiaia e sabbia protesa in tutti i possibili blu del mare greco, nei suoi verdi liquidi cristalli – quale caso, quale disegno mi hanno condotto? – smeraldo dai cunei di giada e di turchese, cobalto dalle fosse di pervinca e di viola. E il libro abbandonato
accanto a me, con le pagine gonfiate ingiallite irrigidite dal sole e dalla salsedine, con nel margine interno dorati fini inestirpabili granelli. Un libro visionario su un’isola apparentemente deserta disabitata; un mondo originario, degli inizi: bianco accecante e blu – acqua e ghiaia – azzurri densi dell’aria, oro sfumato della sabbia. Bianco accecante e vuoto – questo schianto dentro di me – blu cupo e liquido oscuro magnetico anfratto dell’abisso.
Ho perso una cosa che mi era essenziale e che non lo è già più. Non mi è necessaria, così come se avessi perduto una terza gamba che finora mi impediva di camminare ma che di me faceva uno stabile treppiedi. Quella terza gamba ho perduto. E sono tornata ad essere una persona che non sono mai stata. Sono tornata ad avere quanto non ho mai avuto: null’altro che due gambe. E so che soltanto con due gambe io posso camminare. Eppure l’inutile assenza di quella terza gamba mi manca e mi spaventa, era proprio quella gamba a fare di me una cosa reperibile a me stessa e senza neppure aver bisogno di cercarmi. Sono disorganizzata perché ho perso ciò di cui non avevo bisogno?
Non più Isotta, non più Sabina… su questo mare, in questa luce, per chissà quale disegno le pagine guida sono cambiate, mi cambiano.
Sì, lui è Tomàs – quel libro che mi inquietava, come se avesse spiato e letto il mio mondo, non io il libro – desidera le donne che tuttavia lo spaventano, ha paura di innamorarsi… Molte donne dunque; molte donne è come nessuna donna… Così, tra desiderio e timore, quel suo prudente tattico molteplice compromesso: le sue amicizie erotiche, tutte quelle sue amanti per non rischiare quella che potrebbe essere, dell’amore, l’autentica aggressiva pienezza. E io Sabina, nient’altro che Sabina, la sua amante privilegiata….lieve ironica imperturbabile, complice eterea inafferrabile… la leggerezza, la leggerezza lieve che nulla chiede…
Occorrerà del coraggio per fare ciò che sono in procinto di fare: dire. Ma occorre inoltre non avere paura del ridicolo, da sempre ho preferito il meno al più, anche per paura del ridicolo:
è che esiste pure la lacerazione del pudore.
Ma non sono Sabina io, non realmente. Lei è la mia maschera – le mie mentite spoglie – l’essere lieve che il mio amante, per non correre rischi, desidera. Io mi tratto come mi trattano gli altri… Sono Tereza anche, l’umile semplice appassionata Tereza – la pesantezza – che ama pesantemente e senza moderazione talvolta… patire pathos… dolorosamente. Perché ho acconsentito, perché ho voluto pensare che l’amore dovesse essere nient’altro che leggerezza? Sì, qualche volta… non sempre. Non riesco più a negare l’eccesso: la mia profondità mi dà anche pesantezza.
E ora ho visto. So di aver visto perché non ho prestato a ciò che ho visto il mio senso personale. So di aver visto perché non capisco, perché a nulla serve quel che ho visto. Peggio ancora: non voglio quello che ho visto. Quello che ho visto manda in pezzi la mia vita quotidiana.
Eccola la mia terza ingannevole gamba: l’amore perseguito con una qualche finalità – più addomesticato che vissuto – senso per l’insensatezza, orpello per costruire un equilibrio.
Ho spaccato la mia vita a metà. Da un lato l’esistenza quotidiana tranquilla, senza eccessive sorprese; dall’altro l’eccezionalità, l’amore intermittente impossibile, la passione forse più incerta. L’eterno mito: lui Tristano, io Isotta. Ma Isotta sempre pronta, soccorrente accogliente, senza richieste; desiderante ma con misura, dal suo familiare poco pericoloso recinto. Poco pericoloso per sé, poco pericoloso per lui.
Una forma circoscrive il caos… La vita umanizzata… Io avevo umanizzato troppo la vita.
Come spiegare che la mia paura più grande è proprio in rapporto a ”essere“?
No, non sono io quest’umana, sempre pacata moderata Isotta. Su quest’isola, in un attimo improvviso abbagliante – in una goccia pura salata di mare, in un granello splendente ruvido di sabbia – li avverto, li sento i miei desideri reali. Non più prigionieri di un ordine assennato bugiardo: totali ancestrali assoluti selvaggi.
Voglio in realtà – e grandemente e molto – non voglio cancellarmi. Voglio rischiare cambiare morire rinascere… vivere intera – non nascondermi – autentica. Non l’essere poco temibile, raziocinante che gli uomini vogliono fare di me – più cervello che corpo probabilmente – io sono il mio ardito desiderio, le mie torte distorte viscere anche.
Quei discorsi, quei discorsi cerebrali d’amore… altro non erano che un codice fittizio di buon gusto, una finzione, un’illusione che rendeva accettabile vivere. Vivere a brandelli, in più luoghi, con pezzi distinti di me, mozzati perennemente; in più luoghi… e mai in nessuno compiutamente.
Non so che farmene di quella spaventosa libertà che può distruggermi. Ma, mentre ero prigioniera, ero contenta? O c’era, e c’era, un che di subdolo e di inquieto nella mia felice
consuetudine di prigioniera?
E ora sarà terribile forse: alla deriva, senza più balsami. La verità senza alcun senso – nessuna verità – i frantumi della vita ordinaria organizzata.
È forse stata una comprensione la cosa che mi è accaduta e, perché io sia autentica, devo continuare a non capirla. Mi è forse accaduta una comprensione totale quanto un’ignoranza
e dalla quale uscirò intatta e innocente come prima. Qualsiasi mio intendere non sarà mai all’altezza di quella comprensione, poiché vivere è la sola altezza che posso raggiungere:
il mio unico livello è vivere.
I frantumi della vita organizzata. E nessun luogo ospitante, codificato.
Convalidandomi e considerandomi autentica sarò perduta, perché non saprò poi dove inserire il mio nuovo modo di essere. Se progredisco nelle mie frammentarie visioni, il mondo intero dovrà trasformarsi perché io possa esservi inclusa.
Ma anche una minima nuova consapevolezza: che da questo vuoto, da questo vergine silenzio, possa scaturire una parola finalmente mia, inaudita. Forse questo abisso che considero il buio, altro non è che il primo passo verso la luce.
So che dovrò fare attenzione a non usare clandestinamente una nuova terza gamba che in me rinasce facile come erbaccia, e per non definire quella gamba protettrice una verità.
So che dovrò fare attenzione, attenzione, attenzione…