di Alessio Brandolini
da www.filidaquilone.it
num. 7 luglio-settembre 2007
Che l’Amore è tutto quel che c’è,
è tutto quello che sappiamo dell’Amore.
Ha inizio con questa secca ma efficace epigrafe della grande Emily Dickinson la seconda raccolta in versi di Laura Ricci (nata a Viterbo nel 1948, ma che da tempo vive e lavora a Orvieto), dal suggestivo titolo Voce alla notte (LietoColle, 2006), autrice molto parca nel pubblicare, visto che l’esordio in poesia è avvenuto nel lontano 1984, con Le quattro stagioni (Rebellato). Però suoi testi poetici sono presenti in diverse antologie e nel 2004 ha dato alle stampe il libro di racconti, molto poetici, Insopprimibili vizi (AM Edizioni Marotta). Dopo aver insegnato per decenni francese e inglese ora Laura Ricci dirige la rivista web “Fabruaria” e un network di quotidiani in Umbria.
Allora se l’amore è tutto, potremmo domandarci, resta poco tempo e spazio per la poesia? Non è esattamente così: la scrittura della Ricci (anche quella in prosa) è un distillato di continua riflessione, di saggezza, dove alla fine (magari dopo anni di lavoro sui testi) filtra solo l’essenziale, quelle tracce utili al lettore per comprendere il mondo, e – come in questo caso – la possibilità di dare “voce alla notte”, e al silenzio (Troppa occidentale diffusione / mi snerva. Tacete per favore).
Una poesia molto musicale, non a caso qui si parla spesso di strumenti (l’amato pianoforte), di concerti, di scale e di arpeggi, di musica come linguaggio alternativo a quello verbale, di suoni che si fondono alle parole per riuscire a dire “qualcosa in più”. E se nella precedente raccolta era Vivaldi (fin nel titolo) a segnare il ritmo qui è l’estro geniale, la briosità perfetta eppure travolgente, di Mozart.
Parlavamo dell’amore, all’inizio, e molti testi di Voce alla notte insistono su questo tema, una specie di pacata ossessione che si risolve (e si scioglie) nel rito del tè: indispensabile per armonizzare la giornata, i pensieri, le emozioni, i desideri, i ricordi. Una specie di “messa a punto” o, meglio, di “accordatura” della vita. Ecco allora gli odori sottili, i colori vibranti, i suoni delle parole che vengono fuori limpidi e misurati:
È – questo intenso amore –
campo rosso di fragole
d’acre dolcezza profumato.
È di limone fiore, di frutto
aspro allegro mi stordì
d’aroma forte assaporato.
Emana acre pari intenso odore
l’aspro tuo intenso profumato
amore.
E quel “campo rosso di fragole” (in altra poesia “una primula color di fragola / di selvatico un fiore rosso”), fa pensare a un ostinato bisogno di credere nella bellezza dell’esistenza umana (Tutto finito / quasi un fallimento. / Pure amerò di nuovo / con la totalità / piena di sempre). Non il rimpianto del passato, quindi, ma il desidero di vivere con pienezza i propri giorni: l’amore indispensabile, il gesto e l’abbraccio, i piaceri del corpo, e andare avanti a testa alta con la fiducia di sempre.
Testi asciutti che nel loro fluire armonioso svelano il mistero delle piccole cose. La capacità d’ascolto e d’osservazione, che fa vedere i suoni e udire i colori, spinge alla brevità (del verso e della strofa) e alla chiarezza, pur nella polisemia che sempre accompagna la poesia (anche la più limpida), nella sua condensazione d’idee, nella sua capacità di sintesi d’emozioni, talvolta persino contrastanti, del cuore e della mente. Per questo a fine lettura si ha la certezza d’essersi imbattuti in una poesia elaborata con perizia e “necessaria” perché intensa e vera, che rispecchia anche un modo di vivere (l’impegno civile e culturale dell’autrice) e di sentire la poesia.
Così poesia e vita si alimentano a vicenda, si scambiano gesti appartati e gentili, ma anche incrollabili certezze, forza etica, scelte radicali (per esempio quella di pubblicare con discrezione o vivere una sessualità più libera), quotidiane scoperte – se si ascolta e si guarda il mondo con attenzione – e la calma ma decisa ribellione ai luoghi comuni:
È di noi donne la remota dura
ostinata arte di non soccombere..
Come Kandinskij (e non a caso nel libro ci sono due immagini del geniale pittore russo) ha fatto suonare i colori (una sua opera s’intitola “Il suono giallo”), Laura Ricci dà voce alla notte, ai suoi silenzi infiniti e profondi, ai lontanissimi punti luminosi, ma anche alle cose infime che tutti i giorni ci passano sotto gli occhi e non sappiamo vedere (o apprezzare), ai gesti dell’amore e a quelli minimi (del rito del tè, per esempio, che mette in evidenza l’impronta filosofica di tipo orientale), apparentemente insignificanti ma che uniti, messi assieme e intrecciati l’uno all’altro, diventano l’essenza della nostra vita e danno il senso alla nostra esistenza.
L’obiettivo poetico è quello di riconoscere in ogni cosa l’intensità, l’essere. Anche se nella nostra epoca l’esteriorità ha preso il sopravvento e sembra un’enorme bocca che tutto trita e divora. La poesia, la buona e onesta poesia come quella di Voce alla notte di Laura Ricci, prova a farci rivivere l’autenticità e la magia del mondo, ci obbliga a innamorarci di nuovo della vita.
CINQUE DOMANDE A LAURA RICCI
Oltre vent’anni separano l’esordio in poesia con Le quattro stagioni (1984) dal secondo libro Voce alla notte (2006). Come mai? Perché questi tempi così lunghi?
In questi venti anni, anche se con ritmi non ossessivi, ho continuato comunque a scrivere: alcune delle poesie di Voce alla notte sono una rivisitazione di cose già scritte, altre stanno nel cassetto forse in attesa di chissà quale risistemazione. Anche alcuni dei racconti di Insopprimibili vizi (2004) sono una condensazione di cose scritte vario tempo prima. È che per pubblicare devo trovare il momento giusto, e soprattutto ho bisogno di risistemare e collocare i miei scritti in un insieme strutturale originale e che mi convinca. Inoltre ho sempre avuto una vita molto impegnata, molto affollata di esperienze e rapporti, e pubblicare e promuovere la propria immagine in fondo è un lavoro impegnativo, che richiede contatti, contatti, contatti… Io non ho tempo per tutti questi contatti, il mio lavoro mi ha occupato e mi occupa per molte ore, e il tempo che resta preferisco dedicarlo a vivere e a scrivere. Finché a un certo punto trovo quasi per caso il contatto giusto, e allora pubblico.
I racconti di Insopprimibili vizi sono per lo più brevi e con riferimenti e legami alla tua poesia: la musica, la riflessione, le letture, le amicizie, il rito del tè… Così come le tue poesie a volte narrano un vissuto, come delle brevissime storie. Ecco: che relazione tra la tua scrittura in versi e quella in prosa?
La relazione sta nella vita vissuta, da cui, debitamente depurate dallo stile, sia la mia prosa che la mia poesia scaturiscono. Poi nel lavoro di scelta e selezione del linguaggio, nello spogliarlo del superfluo, nella ricerca, in prosa come in poesia, della parola essenziale, immediata e significativa. La mia intenzione è toccare, attraversare per lampi chi mi legge, non semplicemente fargli passare del tempo. Infine, la relazione è nella struttura dell’insieme, sia dei singoli testi che della raccolta. La mia formazione è molto francese, per me anche la passione o l’irrazionalità hanno un loro comporsi strutturale, e non esiste parola senza struttura.
C’è un’armonia nei testi poetici di Voce alla notte che fa pensare alla musica di Mozart. Che importanza ha la musica nella tua poesia? Come lavori sui testi per raggiungere questa essenzialità e, a un tempo, questa densa leggerezza sonora?
Lavoro per eliminazione e per essenzialità significativa, quindi la musica ha molta importanza, nel senso che è dentro di me come un ritmo acquisito. In realtà, io non lavoro mai troppo a lungo sui miei testi. Grazie al senso di struttura e alla musica che sono naturalmente in me nascono già quasi completamente ritmati e depurati. Anche perché non scrivo mai per dovere o per forza, quello lo faccio già nel lavoro giornalistico; creativamente, scrivo esclusivamente quando diventa un bisogno irresistibile: insomma, un “insopprimibile vizio”.
In epigrafe i versi sull’amore di Emily Dickinson. Come mai? e quali sono gli altri riferimenti letterari?
Perché penso che l’amore, nelle sue molte forme, è, in una vita, la forza più grande e più stupefacente.
Non ho dei riferimenti letterari precisi, se intendi per modellare il mio stile; piuttosto ho dei modelli di rigore o di comportamento. Nella prosa Virginia Woolf e Katherine Mansfield, per la loro capacità di dire l’indicibile, di rendere eccezionale il quotidiano; in poesia la limpida e moderna classicità di Maria Luisa Spaziani, l’ironia di Patrizia Cavalli, la corporea densità di Anna Maria Farabbi. Ma soprattutto il grande, quasi sovversivo anticonformismo di Emily Dickinson, che scrisse quasi duemila componimenti, senza preoccuparsi di pubblicare il suo moderno mare magnum. Io amo dire che c’è una poesia di Emily Dickinson per ogni situazione.
Nei cinque testi inediti che pubblichiamo c’è un accenno (nell’ultimo) alla “strega poeta”. Puoi spiegare meglio ai lettore di “Fili d’aquilone” questo concetto che a me sembra innovativo nella tua poesia? e questi nuovi versi verranno pubblicati a breve o per farlo aspetterai – come tua consuetudine – almeno un decennio?
Quanto ai versi sono quasi pronta per pubblicarli, se non dovrò penare troppo per trovare un buon editore: magari questa volta non passerà un decennio… Quanto alla “strega poeta” sì, forse è un concetto innovativo, si riferisce al grande potere, al tempo stesso visionario e salvifico, che dà sapersi aprire, attivamente ma anche con abbandono, alla grande forza della parola. La strega poeta è quella che dosa la parola e non la usa a sproposito, quella che ne fa uno strumento rituale di incantesimi, quel tanto che basta per non disperdere quell’inevitabile, dolorosa, meravigliosa vanitas che è la vita.