di Laura Ricci
da www.articolo21.org
Sono entrata a occhi chiusi nel cortile della casa di reclusione di Orvieto, dove i detenuti che hanno frequentato il percorso dei seminari pittorici tenuti da Salvatore Ravo hanno realizzato, alla fine dell’esperienza, un murale insieme all’artista; sono entrata guidata dalla mano del Maestro, conoscendo il soggetto e alcuni particolari iconografici già diffusi da foto e video, ma non l’insieme dell’opera. E tanto meno l’opera nella sua dimensione spaziale, che non significa solo l’ambiente in cui è situata e come vi è disposta – che sia il cortile, la chiesa, la piazza, il carcere o il castello fa lo stesso – ma, in aggiunta, in quale atmosfera, tra quali suoni odori silenzi rumori, in quale aria, sotto quale cielo: lo spazio, in poche parole, è anche emotivo e soggettivo. Racconterò dunque, inevitabilmente, un’esperienza percettiva da una soggettività.
Quando ho aperto gli occhi e ho visto il mare che Alessandro, Carlo, Fabio, Mindaugas, Simone, Massimo, e ancora Massimo, e Stefano – questi i nomi dei detenuti – hanno realizzato su due grandi pareti del cortile terrazzato, chissà perché, o forse per inestinguibile amore, il mio primo pensiero è andato a La chambre claire di Roland Barthes, l’ultima affascinante sapiente opera che prima di morire (1980) il grande saggista ha fatto in tempo a regalare a chi lo apprezza. Sebbene si tratti, come l’autore stesso precisa in una sorta di sottotitolo, di una Note sur la photographie, non esiste ambito artistico a cui la sua camera chiara non possa essere applicata. Tanto più di questi tempi, in cui la fotografia ha avuto varie e numerose evoluzioni e questo illuminante saggio, dalla fotografia, può essere ancor più legittimamente svincolato. Al semiologo Barthes non interessa tanto la tecnica, quanto quello che un’immagine fotografica – e ogni opera d’arte visiva vorrei arbitrariamente aggiungere – può provocare emotivamente nel soggetto che la guarda grazie all’interagire dialettico di studium e punctum; e quello che può scaturire dall’associazione del lavoro del fotografo-artista e dalla ferita di illuminazione e amore che un particolare, sia pur minimo, induce in chi osserva. Né sarà ozioso ricordare, per quanto mi accingo a dire, che Barthes associa a questo concetto di illuminazione il teatro più della pittura (la fotografia, in definitiva, sarebbe più simile al teatro che alla pittura, una sorta di teatro primitivo o di quadro vivente); e che, quando si tratta di paesaggi, affinché l’illuminazione-emozione agisca il paesaggio deve essere percepito, a suo giudizio, abitabile più che visitabile.
Non si può raccontare un affresco, bisogna osservarlo, viverlo, aprirsi al suo attraversamento; e neanche la fotografia, che può donarcene brandelli coinvolgenti, potrà mai trasmetterne alla coscienza il flusso unitario. La narrazione può tuttavia illuminarlo, sia pure soggettivamente, a partire dalla percezione di un tutto e di un punctum, in quello stato di silenzio a occhi chiusi che, per meglio comprendere un’immagine, Barthes sollecita: “In fondo, o al limite – annota – per vedere bene una foto è meglio sollevare la testa o chiudere gli occhi… la soggettività assoluta si raggiunge solo in uno stato, in uno sforzo di silenzio (chiudere gli occhi è far parlare l’immagine nel silenzio).”
L’orizzonte che si è aperto al mio sguardo quando ho riaperto gli occhi in quel cortile carcerario – non concavo tuttavia, ma bilaterale, a tenere ben ancorati alla finzione strutturale dell’arte – è stata, innanzi tutto, un’invasione di azzurro: del mare, del cielo. Poi la traversata: da roccia a roccia, da rupe a rupe – forse la stessa rupe nella metafora dell’arte – verso il sole, i gabbiani, il faro, tra famiglie di delfini guizzanti e, sembrerebbe, confidenti rassicuranti. A metà viaggio un piccolo atollo con due palme, con a guardia un cetaceo nero: chissà se la piccola vela che si accinge a partire potrà farvi sosta, se riuscirà a superarlo. Se torno a chiudere gli occhi il punctum, per me, è la piccola vela che presumibilmente deve compiere il viaggio; tanto più lo è perché spiega al vento, in proporzione altrettanto minuscola, bandiera italiana.
Questa volta tuttavia accanto al punctum emotivo altri se ne moltiplicano in me, per così dire sociali: piccole fenditure eterogenee, discontinue, che mettono in relazione il desiderio di libertà che l’affresco comunica e gli elementi dello spazio in cui è situato. Perché la visione – e anche la foto della visione, a
seconda di come il fotografo si voglia porre – comprende una doppia coniugazione. Sulla roccia di partenza una bassa porzione di tufo rammenta la relazione tra questo mare e il luogo terreno di pena in cui è realizzato; al centro un ciuffo di pino porta lo sguardo dal cielo dell’arte al cielo di Orvieto; altrettanto accade sull’opposta rupe dove, sul faro di arrivo, si staglia la torretta con le grate delle celle. Se, a distanza, ci applichiamo a percepire l’insieme pittorico, una lunga agile palma centrale del cortile, una piccola aiuola, un nespolo ce ne interrompono, giustamente, l’astratta visione. E che dire di quella piccola fontana di stile rinascimentale, forse autentica – la casa di reclusione di Orvieto era in antico un convento – dietro cui si libra il gabbiano più grande e più candido e al cui lato sorge un rosso enorme sole? Talmente decontestualizzante, la fontanella, da agire quasi da terza dimensione, da risultare, per così dire, il punctum punctorum, lo spiraglio degli spiragli. Nel mio silenzio interiore, nella mia soggettiva emozione rifletto. È proprio questo misto di finzione e realtà che mi colpisce, questa coniugazione tra la narrazione dell’arte e quella della vita: di questa vita più dura e costretta che ha dato fiato al desiderio e alle speranze del viaggio, alla colorata ariosa evasione marina. Amo l’affresco situato nel suo qui e nel suo ora, per quella piccola bianca fontana dagli amorini scolpiti situato, persino, in un suo allora. La camera chiara di Barthes è diventata respiro e colore: non solo per me che osservo e percepisco, anche per Salvatore Ravo, anche per i suoi allievi. Lo appuro parlando con loro.
Il progetto realizzato si chiama, non a caso, “Il colore fuori e dentro”. Non è semplicemente un murale: l’affresco è l’esito finale di una serie di incontri laboratoriali di pittura che, in questa che è una delle case di reclusione a custodia attenuata, il Maestro Ravo ha potuto svolgere con otto detenuti. In quello spirito di formazione e rieducazione che si sta cercando di attuare da quando, scegliendo un istituto per ogni regione italiana, si è data concretezza, secondo quanto disposto dall’articolo 115 del dpr 231/2000, all’istituzione fattiva di questo circuito differenziato, i cui compiti di rieducazione erano già adombrati, sia pure più genericamente, nella riforma carceraria del 1975. In Umbria, l’istituto penitenziario prescelto è appunto quello di Orvieto.
Sapevo, dalla fruizione di un video, che ogni seminario si apriva con la lettura, da parte dei detenuti, della cosiddetta “linea del giorno”: una piccola e profonda riflessione che Salvatore Ravo proponeva all’inizio di ogni incontro, secondo la direttrice di un itinerario programmato di consapevolezza, accettazione, luce e libertà interiore. L’idea dell’affresco, del colore “fuori”, è maturata “dentro” man mano che il colore nasceva, con una nuova e diversa conoscenza di sé e dell’altro da sé. Per loro – non dal punto di vista dell’osservatore, ma da quello dell’esecutore – è esistita anche una camera scura che, ancor prima di diventare colore, ha dovuto rischiararsi. Per loro la camera scura si è fatta chiara; e la camera chiara dell’anima si è fatta desiderio, evasione, colore. Uso la parola “evasione” in senso interiore, metaforico, artistico – decontestualizzata, dunque, dall’atto reale che il luogo-carcere potrebbe suggerire – e la trovo più precisa, più immaginifica in questo contesto, e al tempo stesso più realistica e sociale della parola “libertà” che l’affresco può comunque suscitare.
Il filmato che avevo visto, con le sue linee del giorno e i suoi stralci di mare, mi ha suggerito di portare con me, per iniziare il mio incontro con loro, pochi versi dalla mia ultima opera edita, guarda caso un itinerario poetico-pittorico attraverso il mare realizzato in collaborazione con Salvatore Ravo. Certamente in virtù dell’ottimo lavoro svolto con il laboratorio, certamente grazie al fatto che li ho incontrati insieme al Maestro Ravo, con i detenuti ci siamo salutati con semplicità, forse con immediata empatia. Mi sono presentata brevemente, ho detto che avevo visto il video e che riconoscevo i loro volti e i loro nomi, mi sono complimentata per l’affresco, ho annunciato che avevo portato anch’io una linea del giorno e che, se a loro faceva piacere, l’avrei letta. Hanno voluto che la leggessi, e così ho intrecciato il mio mare, in questo caso il mare Egeo di Rodi, con il loro:
zaffiro agata turchese ametista
smeraldo tormaline lapislazzuli
selvaggia incontaminata bellezza
nel subbuglio del mal di mare
e dire che – loro – a remi a vele
traversavano inaffidabile l’onda
Dopo la lettura abbiamo cominciato a parlare in confidenza e libertà e, dall’empatia, siamo passati a una singolare, poetica sintonia. Ho incontrato dei detenuti, è vero, delle persone che possono sembrare lontane dalla cultura e dalla creatività, eppure ci siamo compresi, in una situazione estrema e poetica, meglio che tra liberi. Non so bene perché, ma ho provato a cercare qualche ragione. Anche l’artista, lo scrittore, il poeta, mi sono detta, per creare devono evadere dallo spazio ordinario in cui, al pari del detenuto, si sentono talvolta costretti. Evadere, proprio come ha fatto chi ha realizzato questo affresco, secondo un piano, una traiettoria, una ricerca interiore che porti a creare uno spazio diverso: più vasto, simbolico, che dia respiro a quella parte dell’animo più sopita e taciuta, più autentica, desiderosa di vedere la luce e di materializzarsi in una qualche metafora. “Ma la fantasia di un detenuto – dirà poi uno di loro, Massimo – può superare quella di un artista, supera ogni altra cosa”. Su questa onda parliamo – io e Ravo da liberi, loro da reclusi – di creatività, interiorità, colore, di come il soffio della vita possa alitare e liberarsi dal chiuso di una stanza, di una cella, di un’anima che riflette in silenzio e solitudine. Mi vengono in mente la mia Dickinson, le mie mistiche; rischio. Racconto loro di Emily, della straordinaria evasione mistica della poeta dalla sua stanza solitaria ma piena, per mediazione e riflessione, delle voci del mondo. Condividono, comprendono. Mi sembra un dono, un miracolo del benedetto assurdo poetico.
Mi spiegano, poi, che questo percorso è nato dal progettare e dal fare insieme: non solo con il Maestro Ravo – del quale sottolineano la spiritualità, il rigore, il ruolo guida e la severità al momento buono – ma anche dalla collaborazione, aggiungono in modo naturale e sincero, con gli agenti della polizia penitenziaria e con la segreteria e la dirigenza. Anche l’affresco del cortile è scaturito, a conclusione, da un bozzetto che uno di loro ha disegnato e che poi tutti insieme, allievi e maestro, hanno discusso, valutato, modificato. “La cosa bella – annota Ravo – è stata il dinamismo; nel procedere, sia del percorso, sia dell’affresco, si nota l’aumento della luce”. Tutti concordano che, tra i giorni passati a dipingere, il migliore è stato il più aperto e il più dinamico, quando, insieme a loro che dipingevano, sono state presenti altre persone a interagire, fare musica, cantare… Come non ripensare all’impatto emotivo dell’immagine, che Barthes mette in relazione più con una sorta di teatro primitivo che con la tecnica pittorica vera e propria; o alla rappresentazione del paesaggio come luogo dell’abitare più che del visitare. Dell’abitare non solo di chi guarda ma, in aggiunta, di chi riproduce una foto o, dalla luce e dal colore che ha dentro, crea.
Quando chiedo cosa ha mutato o liberato in loro questa esperienza vengono fuori parole come: gioco, ossigeno, luce, solitudine, libertà, spensieratezza, radici. Espressioni quali: “la libertà è anche nelle piccole cose”, “per me l’arte è vita”, “è stato un lavoro di liberazione”, “vedo emozioni che sono diventate colore”, “mi ha trasmesso il coraggio più grande, quello di accettarsi”, “nessuno mai ci chiuderà, con questo lavoro in parte ci siamo riusciti”, “rientrare la sera in cella era portare dentro una parte del fuori”, “non è stato un corso ma un insegnamento di vita”. Tante le emozioni anche per il Maestro Ravo, che mi spiega come il suo insegnamento sia anti accademico, basato non sulle nozioni ma sulla scoperta del sé: “Ho visto e sentito persone che ascoltavano e mi seguivano nel percorso – afferma; – solo attraverso un itinerario basato sul superamento della paura, il disegno, la linea, si possono scoprire le proprie possibilità e le proprie emozioni interiori”.
Per tornare al mare sul cortile terrazzato, all’affresco, alla funzione pratica del domani. Mi è stato detto che in quel cortile andranno i bambini e le bambine a fare visita ai loro genitori reclusi, così da poterli rivedere in uno spazio più colorato e sereno. Non riesco troppo a immaginare come avvengano questi incontri, credo lascino tracce profonde nell’animo di una bambina o di un bambino, ma probabilmente il mare, i delfini, i gabbiani, il nero pescecane, il faro e la veletta con la bandiera italiana potranno aiutare, non solo nell’animo ma anche nella conversazione.
Sono stata informata che, da un detenuto intonacatore, il fondo dell’affresco è stato ben preparato e trattato, che sebbene esposto agli agenti atmosferici esterni potrà durare a lungo, un molto umano a lungo: trent’anni forse, meno della pena di molti detenuti.
Potrà essere fruito solo in parte, solo da pochi e no di certo come consumo culturale o turistico. E forse proprio la difficoltà per i tradizionalmente liberi di raggiungerlo, il ruolo funzionale e sociale, il probabile deperimento ne aumentano il desiderio di percezione, il pregio e l’insegnamento di vita. “Perché in nessun luogo v’è restare…”, diremo con il verso rilkiano del grande poeta che, proprio sul mare, lo scrisse. Vale per il mare; vale per il carcere dal quale si può evadere, almeno in metafora, via mare e sulle ali di un gabbiano, o dal quale si potrebbe/dovrebbe uscire cambiati e rigenerati; vale per chi, in questa nostra Italia, è talvolta troppo sbrigativamente giustizialista; vale perché si moltiplichino, in altri luoghi e in altri ambiti, esperienze effimere della trasformazione simili a questa.
In fondo, proprio come Barthes indica per la fotografia, le strade sono due: o si resta in un saggio realismo relativo di facciata, nella realizzazione-fruizione temperata e cortese di un’immagine; o, in un realismo forse folle ma assoluto, grazie a un’immagine spiazzante si può affrontare, invece del codice delle illusioni perfette, il risveglio dell’intrattabile realtà. Questo affresco ci porta nel cuore di quella che è ancora, per molti, un’intrattabile realtà: il ruolo educativo e formativo che la detenzione può e sempre più deve avere, l’intreccio perverso del ruolo di formazione e riabilitazione del carcere a custodia attenuata e di talune discrepanze del sistema di funzionamento della giustizia.
Ma qui mi fermo, l’analisi sociologica spetta a altri, ho volutamente redatto un testo da scrittrice, anzi da poeta; che tuttavia non dimentica il sociale e spera di poterne offrire, semmai, uno spiraglio ulteriore d’indagine. La mia linea del giorno da dispensatrice di versi, scritta a mano su un foglio di blocco note come si faceva una volta – non perché sia contraria al pc ma perché voleva essere, come il tratto di pennello, un personale distinguibile segno – è rimasta lì, nella casa di reclusione di Via Roma a Orvieto, dove i detenuti mi hanno chiesto di lasciarla. Con la mia calligrafia viziata e sciupata dalla pratica costante della tastiera, con le frange disordinate dello strappo della carta dalla spirale. È rimasta nel loro dossier di lavoro e nelle loro mani. È un onore per me, credo che sia nel luogo giusto e in buone mani.
Brevi note sulla casa di reclusione di Orvieto
La casa di reclusione di Orvieto è uno degli istituti di pena a custodia attenuata che sono stati individuati in Italia, in misura di uno per regione, per la realizzazione di un circuito regionale secondo quanto disposto dall’articolo 115 del dpr 231/2000. Si tratta dunque di un istituto penitenziario differenziato, il solo della regione Umbria, dove la funzione rieducativa della pena assume maggiore importanza rispetto a quella retributiva. Secondo lo spirito del terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione Italiana – le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato – il carcere a custodia attenuata è organizzato per offrire ai detenuti possibilità diversificate di formazione e riabilitazione, così che chi è recluso possa acquisire nuove conoscenze, accrescere la propria cultura, sperimentare forme di lavoro, agevolare il mutare e il maturare della propria personalità.
La casa di reclusione di Via Roma è diretta dal Dott. Luca Sardella. L’organizzazione della struttura è sotto la responsabilità e il coordinamento del Comandante del Corpo di Polizia Penitenziaria, Commissario Enrico Gregori. Il coordinamento della Segreteria e della Sicurezza è curato dall’Ispettore Fabrizio Bonino.
Nell’istituto penitenziario di Orvieto le opzioni formative sono varie e differenziate, di solito afferenti a discipline artistico-letterarie o ad attività pratiche; tra le più recenti e significative questo laboratorio pittorico con un artista di livello internazionale attualmente residente a Orvieto, Salvatore Ravo, esperienza che ha portato alla realizzazione finale di un murale di 200 metri quadrati in un cortile interno dell’edificio. L’impatto di questo progetto è stato talmente positivo, da aver indotto la Casa di Reclusione di Orvieto e l’Associazione Culturale Aítia, di cui Ravo è presidente, a programmare altre esperienze di questo tipo in cui, accanto all’arte pittorica, assumano un ruolo educativo anche altri linguaggi espressivi, come la musica e la parola letteraria poetica e narrativa.