La postfazione al volume di Laura Ricci
Ovvero: dell’impermanenza
Il 2 ottobre del 1907 il ventiquattrenne Franz Kafka inoltrava alle Assicurazioni Generali di Trieste, presenti allora in quattro continenti con numerose agenzie tra cui quella di Praga, una domanda di assunzione corredata dal suo curriculum, scritto, probabilmente, con la preziosa penna Faber Kastell che il padre, in occasione della laurea, gli aveva regalato: cercava, dopo la laurea in legge e il prescritto anno di pratica, un impiego decoroso che gli lasciasse il tempo di scrivere. Nel curriculum dichiarava di parlare tedesco, boemo, francese e inglese, di conoscere la stenografia tedesca e di aver soggiornato in Austria e Germania. Fu prontamente giudicato adatto al lavoro e l’agenzia generale di Praga comunicò a Trieste di accogliere la sua domanda di assunzione, con la qualifica di impiegato ausiliario e uno stipendio mensile di ottanta corone. Un’annotazione a piè di pagina dichiarava: “Abbiamo intenzione di istruire il signor dr. Franz Kafka specialmente nel Ramo Vita, per utilizzarlo più avanti anche nel servizio all’estero”.
L’impiego di Kafka alle Generali, che in un primo momento aveva acceso tante aspettative nel suo cuore, non durò tuttavia a lungo: la sua speranza di viaggiare, espressa per lettera alla fidanzata dell’epoca Hedwig Weller – sta imparando l’italiano, le scrive, perché spera di andare presto a Trieste, ma ancor più di raggiungere in seguito paesi più esotici e di poter “guardare dalle finestre dell’ufficio su campi di canna da zucchero o cimiteri musulmani” – tardava ad avverarsi e l’impiego lo impegnava molto e intralciava la scrittura, tant’è che già nel 1908, con lettera datata 14 luglio, lo scrittore comunicava all’agenzia di Praga le sue dimissioni per malattia. Pochi mesi dunque, ma sono bastati per radicare profondamente Franz Kafka nell’immaginario triestino, assieme al fatto, ancor più rilevante, che fu un altro triestino eccellente, Bobi Bazlen, a scoprire e a diffondere l’opera dello scrittore praghese.
Per il triestino Claudio Grisancich, che per molti anni ha conciliato la sua precoce e prolifica scrittura con l’impiego alle Assicurazioni Generali, l’effimero ma più che rimarchevole “collega” Kafka è stata una presenza costante e insistente che, al di là di un’attenta e assidua frequentazione di lettore, lo ha a lungo e ripetutamente attanagliato sullo spazio da riservargli come protagonista di una sua eventuale opera. Forse ogni mattina, entrando nel bel palazzo delle Generali lungo le Rive, l’impiegato-scrittore triestino incontra, per qualche attimo, la sagoma filiforme, evanescente e fuggevole dello stimato collega boemo che, pur lasciando le Generali, per vivere continuò a lavorare nel ramo assicurativo e che, come Grisancich racconta in uno dei tasselli di questo libro, spinto dalla curiosità, e forse dal rimpianto di un destino che non si era compiuto, era venuto per poche ore a Trieste, raggiungendola da Venezia dove si trovava, il 14 settembre 1913. E ogni notte, forse, nella sua fucina, il poeta aspetta un suggerimento da Franz, un segno: perché gli occorre di trovare una forma, un sentiero non ancora esplorato, un non ancora rappresentato o detto per parlare di lui. Fino a quella sera in cui, in un periodo di tedio e inazione, Franz Kappa finalmente arriva, ospite “sublime” e “discreto”, con la sua tosse “aspra” e “rancorosa” che non può più essere calmata da un semplice sciroppo di pino mugo.
Franz Kappa racconta, in un tassello fondamentale di quest’opera: di sé, della famiglia, cautamente del padre, più diffusamente degli amici e della sua Praga, “un amore con acrimonia”; strappa il poeta al suo grigiore, e l’opera che Grisancich va cercando nasce. Nasce all’interno di un non-genere, di un intreccio singolare di registri e soggetti. Piccole istantanee, tessere di mosaico che si incastrano senza alcuna cronologia ma in ordine puramente emozionale, particolari che invece di attardarsi nella precisazione documentale suggeriscono poeticamente, che danno per scontata – qualora fosse necessaria, giacché in fondo non lo è – la ricucitura eventuale di chi legge.
Talvolta è il narratore onnisciente a raccontare, talvolta è l’io soggetto del protagonista Franz Kappa. Talora è l’autore a entrare nel testo in prima persona, talaltra un non ben identificato personaggio che, come nell’esordio sull’incendio della Biblioteca di Alessandria, potrebbe essere una trasposizione creativa dello stesso Grisancich, ma resta una sospensione, un’ambiguità, non ne siamo del tutto certi. Altre volte sono alcune presenze praghesi della vita ordinaria di Kappa a esprimersi, a fornire qualche tratto fulmineo dell’aerea consistenza del protagonista, quasi carpito furtivamente: il pellicciaio Rudolf Procházka, l’attore Jizchak, il capo cameriere Vranek. A volte, oniricamente, sono i sogni e gli incubi a delineare i suoi pensieri o le sue angosce, o anche il suo noto senso dell’umorismo, come nel brano dell’inspiegabile scomparsa della cornacchia dall’insegna del negozio di famiglia: quella taccola corvide e birbante – in ceco kavka, con evidente riferimento all’etimologia del cognome – che, una volta tanto, con la sua assurda sparizione riduce a un’infreddolita, quasi ridicola impotenza l’autorità ingombrante del padre.
Come effetto inevitabile di questo originale gioco di frammenti, i registri espressivi si alternano con levità e disinvoltura: dal doloroso all’ironico, al sentimentale, all’angosciato, allo struggente, al familiarmente tenero, all’irritato, come nel brano dedicato all’insorgere della grande guerra. Nel variegato caleidoscopio che vibra e scintilla sotto gli occhi di chi legge, pian piano la figura di Franz Kappa assume una sua tenue, e tuttavia precisa, consistenza: la famiglia, l’amata sorella Ottla, il rapporto conflittuale con il padre tiranno; il lavoro svolto con dedizione ma ladro del tempo per la scrittura – e la scrittura, d’altra parte, da conservare o da eliminare? – l’amicizia inestinguibile con Max Brod che, per fortuna dei posteri, non distrusse i suoi scritti; la sua ineguagliabile città, Praga, luce e buio, tiranna del cuore che, nonostante i vagheggiamenti del partire, mai potrà e vorrà lasciare; gli amori desiderati ma mai vissuti pienamente, perseguiti nell’impermanenza delle corrispondenze epistolari e dei distacchi: salvo l’ultimo, persistente e diamantino come il bel cognome di Dora suggerisce. Nel puzzle degli «ovvero» si muove, variabile e multipla, impermanente e per questo viva e poetica, la forma di un Kafka essenziale ed eccentrico.
Accanto alla frequentazione di Franz Kappa, l’autore stabilisce, nei mesi dell’amoroso scrivere, quella non meno profonda e fruttuosa con Francesco Carbone, che sull’onda sonora dei tasselli di Claudio Grisancich racconta, con il mezzo creativo che gli è proprio, un Franz Kappa parallelo, forte e deciso nel tratto artistico delle tavole, ma non meno lieve e impermanente nella resa iconografica dell’insieme. Che meraviglia, tanto per esemplificare, quel volteggiare di Kappa sull’ardua bivalente scala della mistica ebraica, quell’inseguire nella cattedrale il suo capriccioso cappello, quel volteggiare come in fuga impertinente, sul ponte Carlo, tra scure cornacchie. Non un’illustrazione – sarebbe peccato mortale intenderla così – ma un percorso alla pari di apprendisti stregoni che, con mezzi diversi, inseguono in modo del tutto inedito la quintessenza di Kafka. Due farfalle e una «cornacchia», in sintesi, in un volo creativo fulmineo e assolutamente originale.
Ma è proprio Kafka, viene da chiedersi, questo Franz che Claudio Grisancich ci regala, o almeno: è solo e semplicemente Kafka? Non è casuale, forse, che si chiami Kappa, che sia e non sia, che sembri alludere a una presenza altra e non del tutto coincidente. “Madame Bovary, c’est moi!”, amava dire Flaubert; e Roland Barthes, nello scrivere Roland Barthes par Roland Barthes, la sua eccentrica biografia, parlava di sé raccontandosi in terza persona attraverso idee, riflessioni e allusioni, piuttosto che tramite particolari biografici; decideva inoltre di narrare in prima persona, e con qualche foto, solo la parte iniziale che riguarda l’infanzia e l’adolescenza: perché poi, da quando aveva cominciato a scrivere, affermava, a raccontare Barthes erano le sue opere, lo stratificato molteplice «testo» della sua scrittura.
Credo che Claudio Grisancich, con questo suo Franz Kafkaa, ovvero:, abbia fatto un’operazione creativa simile. Per lui raccontare di Kappa è anche raccontare di sé e del suo rapporto con la vita e con la scrittura; e a suggerirlo, oltre a qualche incursione diretta nel testo, sono i frammenti in versi, e ancora di più alcuni spiragli in dialetto triestino, come quella fresca e ridente “ bataglia a colpi de cussini” nel giorno “che se cambia i linzioi”. Non appare dunque fuori contesto chiedersi, rispetto a un mirabile passaggio chiave del libro – l’epigrafe sul senso dell’esistenza – quanto appartenga a Franz Kappa e quanto, invece, a Claudio Grisancich, o comunque quanto narri di entrambi: “Ho creduto nella precarietà dei bagliori dell’impermanenza nella selva oscura; a farla breve, ho creduto fosse la vita”.
Claudio Grisancich, Francesco Carbone
Franz Kafka ovvero:
introduzione di Francesco Carbone
postfazione di Laura Ricci
Vita Activa Nuova, Trieste 2023
pp. 160, euro 25,00