di Laura Ricci su Letterate Magazine
È stata proprio una mia recensione su Letterate Magazine, rimbalzata su Facebook e su Twitter, ad imporre all’attenzione dell’appena istituito International Award “Trieste. Diritto di Dialogo”, la figura della scrittrice turca Asli Erdoğan. Come facevo notare in quello scritto che prendeva spunto dalla sua seconda opera pubblicata in italiano, “Neppure il silenzio è più tuo” (Garzanti, 2017), non è stata molto tradotta e dunque non è molto nota in Italia, ma quell’articolo, nato dal mio interesse per la tormentata società turca e per l’ennesimo liberticidio che in essa si sta consumando con il regime di Recep Tayyip Erdoğan, ha di certo contribuito a far notare l’azione di questa attivista per i diritti umani, tanto che mi è stato chiesto di candidarla al premio triestino. Ed è a lei che la giuria, presieduta da Gabriella Valera, ha assegnato e consegnato a Trieste il riconoscimento lo scorso 21 marzo 2019.
È lusinghiero che una rivista possa concorrere a questo tipo di azioni positive, diffondendo argomenti di impronta letteraria e sociale e, come in questo caso, la consapevolezza di quanto in alcuni luoghi del mondo – troppi ahimè – si calpestino, brutalmente e pressoché indisturbatamente, la democrazia e la libertà.
Non tornerò diffusamente su quanto già scritto in quell’articolo – la difesa dei diritti delle donne e delle minoranze etniche, in particolare di quella curda, sempre perseguita da Asli; la sua denuncia delle violenze sui dissidenti, delle sparizioni e delle uccisioni di attivisti politici; il suo arresto e la sua prigionia dopo il colpo di stato del 15 luglio 2016 e la svolta autoritaria di Erdoğan; la sua scarcerazione dopo circa quattro mesi per il vasto movimento internazionale d’opinione in suo sostegno – mi interessa piuttosto parlare di quello che è e che fa la scrittrice oggi, e di mettere in relazione il suo destino di esule con quello di un’altra intellettuale turca, Pinar Selek, sociologa, scrittrice e attivista per i diritti delle minoranze, costretta all’esilio e, come Asli, solo recentemente tradotta in italiano.
Asli Erdoğan, che ha lasciato la Turchia dopo la sua liberazione, vive attualmente in Germania, in attesa della sentenza definitiva di un processo farsa che, per “aver agito per la distruzione dell’unità dello Stato”, potrebbe costarle nel suo Paese l’ergastolo. L’ho incontrata a Trieste in occasione del riconoscimento assegnatole e, nel corso di alcune conversazioni, ho potuto ricostruire il suo presente e le sue considerazioni sull’attuale situazione politica turca.
Con un aspetto piuttosto sereno che non avevo fino ad allora rinvenuto in nessuna sua foto, si è detta felice del premio, perché oltre a sottolineare il valore della libertà di pensiero e del dialogo da lei sempre perseguiti, porta l’attenzione sull’insostenibile e troppo spesso ignorata situazione della Turchia odierna: nemica, ha detto, di armeni, ebrei, curdi e delle donne. Non esita a definire una vera e propria giunta militare il governo di Recep Tayyip Erdoğan, la ritiene anzi la peggiore dell’ultimo cinquantennio, considerando che i colpi di stato del 1971 e del 1980 hanno visto al potere giunte – lei le chiama così – che hanno promulgato leggi marziali e misure straordinarie di sicurezza, torturato, processato e pronunciato gravi sentenze verso trentamila persone, ma che con l’attuale governo si è arrivati, con le condanne, a tre volte di più. “Sono tutti in prigione in Turchia – afferma – giornalisti, militari, funzionari dello Stato, con processi celebrati da giudici di nuova nomina e di nessuna esperienza. Come quello del mio processo, che viene continuamente rimandato”.
Ma lei, in Turchia, ha deciso di non tornare, anche se a Istanbul vive sua madre e se del Bosforo ha un’enorme nostalgia: sarebbe un’azione suicida. E, sebbene in esilio, dice di sentirsi per la prima volta nella sua vita una donna libera e di potersi dedicare più serenamente alla scrittura. Sta rivedendo per una riedizione, con questo nuovo stato d’animo, la versione tedesca di “Das Haus aus Stein” (La casa di pietra): un libro sulla situazione carceraria turca scritto in un periodo difficile, mentre si sentiva molto minacciata e condizionata nella libertà.
Negli stessi giorni in cui riflettevo sull’esilio di Asli Erdoğan è apparso, sul n. 134 della rivista Leggendaria, un articolo di Antonella Fimiani dedicato a Pinar Selek, la cui odissea inizia con quel colpo di stato del 1980 rammentato anche da Asli, a seguito del quale il padre di Pinar, esponente di sinistra, venne imprigionato. Da allora per Selek si sussegue un calvario di persecuzioni a causa del suo impegno di sociologa, femminista e antimilitarista che si distingue in progetti a favore delle donne vittime di violenza, degli indigenti, dei bambini di strada, delle minoranze sessuali e delle comunità curde. Fino al suo arresto nel 1998 per la fantomatica accusa di complicità terroristica con il PKK, a due anni e mezzo di carcere in cui non le viene risparmiata la pratica della tortura, a un processo farsa per cui rischia trentasei anni di carcere e alla conseguente decisione dell’esilio in Europa nel 2009. Attualmente vive a Strasburgo, dove insegna all’Università.
Più o meno coetanee – nata nel 1967 Erdoğan, nel 1971 Selek – il destino di queste due donne si incrocia emblematicamente, sia nel comune impegno di denuncia e nelle conseguenze che per loro comporta, sia nel dolore per le/gli intellettuali imprigionati o uccisi – come ad esempio il comune amico Hrant Dink, editore del quotidiano turco-armeno “Agos”, perseguitato dalla cosiddetta giustizia di un Paese illiberale e assassinato nel gennaio 2007 – sia nell’inevitabile decisione dell’esilio. Entrambe di Istanbul, entrambe dolorosamente lontane dal Bosforo: per poter essere libere e poter scrivere, sociologicamente o creativamente, di una terra natia amata e, al tempo stesso, odiata nella sua deriva politica.
Dopo un libro sulla negazione del genocidio armeno, sulla rimozione dei diritti delle minoranze e sulla manipolazione storico-politica nelle dittature, “La maschera della verità” (Fandango, 1915), di Pinar Selek è apparso recentemente, sempre per Fandango, il romanzo “La casa sul Bosforo”, che attraverso la storia di due giovani donne affronta il tema della sfida delle convenzioni, della patria che è gioco forza lasciare e dell’alto prezzo pagato per la libertà. Come i libri di Asli, quelli di Pinar sono censurati in un Paese che, oltre a calpestare i diritti umani, sta risospingendo le donne turche verso la famiglia, la maternità e i ruoli subalterni dai quali erano cominciate a uscire.
“The world is reading Turkish literature”, era scritto trionfalmente nel grande poster che introduceva agli altrettanto grandiosi stand della Turchia alla London Book Fair del marzo 2019. “Ma quale letteratura turca?”, viene da chiedersi. No di certo quella dissidente. Tra i numerosi volti degli scrittori e delle scrittrici del poster, alcuni per noi lettori e lettrici dell’Europa occidentale sconosciuti, altri conosciuti mancavano, come ad esempio quelli di queste due coraggiose intellettuali; e di chissà quanti e quante altre come loro, che non conosciamo ma esistono.
Se il mondo può essere pronto a leggere letteratura turca, la società controllata e oscurata dell’attuale Turchia non è certo pronta a proporre con scelte culturali oneste la propria letteratura.
Pinar Selek, La maschera della verità, Trad di M. Maddamma, Fandango, Roma, 2015
Pinar Selek, La casa sul Bosforo, Trad. di A. Tosatti e C. Diez, Fandango, Roma, 2018
Asli Erdoğan, Neppure il silenzio è più tuo, Trad. di G. Ansaldo, Garzanti, Milano, 2017