di Maria Vittoria Vittori
da Leggendaria – n. 87, maggio 2011
L’immediata impressione è quella di un libro emozionante e inconsueto; sì, perché Dodecapoli di Laura Ricci è molto più di una semplice raccolta di racconti, risultando piuttosto il compimento di un originale progetto di architettura espressiva. Gli itinerari esistenziali delle dodici donne che prendono la parola per raccontarsi sono infatti disposti nel solco di un rapporto privilegiato con i luoghi e principalmente con le piazze cittadine: dove per piazza s’intende sia lo spazio pubblico per eccellenza, per secoli interdetto alle donne, sia il luogo deputato alla grande progettazione architettonica. E così, mentre i percorsi di queste donne entreranno a far parte a pieno titolo della storia di tutti, la bellezza di luoghi come Piazza delle Erbe, Piazza Carlina, Campo dei Miracoli, Piazza Ducale varrà a toccare nel profondo, epifanicamente, le protagoniste di un’intensa quanto corroborante osmosi tra struttura architettonica e paesaggio interiore. Ed è in questa prospettiva che si collocano le splendide fotografie di Ambra Laurenzi che accompagnano i racconti: con la loro nitida bellezza valgono a suggerire, anche per noi lettrici e lettori, nuovi indizi di significanza, inedite possibilità di permeabilità e di osmosi.
Spesso il canale privilegiato è un piccolo dettaglio della quotidianità, un punto apparentemente marginale come mette bene in luce Anna Maria Crispino nella sua acuta prefazione; può essere un cambio di lenzuola, un piumino nuovo, un abito di percalle rosa; e il sentimento prevalente nelle storie è declinabile in una gamma che conosce tutti i toni della vicinanza. C’è la calma confidenza con cui la venticinquenne Marta, casalinga non per sua scelta, si sceglie il suo angoletto in Piazza delle Erbe per accedere a un momento di libertà assoluta; l’affinità profonda che nel suo “lento architettonico risveglio” la trentatreenne professoressa Caterina Blume ristabilisce ogni giorno con la sabauda Piazza Carlina che si apre al di là delle finestre del suo appartamento; la sofferta consapevolezza di Chiara, avvocata combattiva e donna spesso ferita dall’amore che sceglie, per ripararsi dalla delusione, un gradino di Fonte Gaia, in Piazza del Campo: “Come quelle del cuore, le traiettorie dello spazio non erano così dirette, così simmetriche, così scontate”.
Sottili ma robuste nervature espressive uniscono le storie di queste donne, pur nella diversità dell’età, della condizione sociale, delle esperienze e delle scelte personali. La scrittura riflessiva e sapientemente articolata, di rara eleganza; riferimenti che testimoniano un patrimonio di letture condiviso: “De Soto, esplora te stesso!” è il monito dickinsoniano che sentono risuonare al loro interno sia Elena, architetto con l’aspirazione all’assoluto, sia Flavia, viaggiatrice per passione; l’ombra della Woolf (“l’amata, profonda Virginia”) si materializza in più racconti e la storia finale, che affronta il tema di una resistenza alla dispersività capace di garantire la scrittura, si raccorda, nell’ambito di una struttura architettonica perfettamente compiuta, a un precedente racconto imperniato sulla resistenza alla disperazione e alla perdita di senso.
Se la protagonista di “Il circo”, giovane vedova ferita dalla vita ma lucida e combattiva, afferma di voler vivere a Trani “come a Parigi, a Londra, a Bloomsbury, a Balbec”, è con parole analoghe che la protagonista dell’ultimo racconto “Margherita e l’arcangelo guerriero” riafferma la ragione ultima della scrittura non solo del suo libro, ma certo anche di questo: “Sì, era nato: a Mentone come a Londra, come a Parigi, come a Bloomsbury, come a Balbec. Tutto era stato detto e tutto poteva essere ancora raccontato”.