Virginia Woolf lavorò a La Signora Dalloway – il primo dei suoi romanzi più maturi e innovativi – dal 1922 al 1925, anno della pubblicazione, coronando tutta una serie di influssi e di teorie e, ovviamente, di proprie intuizioni e sperimentazioni che, in vario modo, aveva perseguito nei lavori precedenti e nelle riflessioni del Diario.
Agiscono nel romanzo, come nei successivi scritti – Gita al Faro, Orlando, Le onde – tutti quei fattori del primo Novecento che porteranno alla dissoluzione dell’intreccio tradizionale e delle rigide categorie letterarie: gli oscuri recessi della psicologia freudiana, il “flusso di pensiero” individuato da William James nei suoi Principles of Psycologie, l’idea di “durata” di Bergson – sia la dilatazione del tempo interiore rispetto a quello esteriore e meccanico, sia l’accumulo delle impressioni della coscienza – gli “stati intensissimi al di fuori del tempo” di cui aveva dissertato il filosofo G. E. Moore.
Come Ulysses di Joyce – dal quale tuttavia differisce per fini, impianto e diversa sensibilità – Mrs Dalloway è il racconto dilatato e disperso di una giornata: il 16 giugno 1904 di Leopold Bloom a Dublino per Joyce; un più vago mercoledì di giugno di Clarissa Dalloway a Londra per Virginia Woolf.
Clarissa esce di casa in una fresca stupenda mattina, per comprare i fiori che adorneranno il suo party serale: intorno a quella festa costruisce e organizza la sua giornata, intersecando il suo vagare e il suo modo di vivere ed essere con quello di una serie di esistenze a lei più o meno note. Il suo cammino ha un fine pratico, ma è continuamente interrotto da tunnel e caverne che scavano nel suo pensiero, facendola sprofondare nel passato e nell’analisi di sé, nei ricordi e nelle domande sulla vita.
Anche Septimus – il personaggio maschile a lei opposto e complementare – di cui incrocia e percepisce l’angoscia in Regent’s Park – si muove per Londra, fra la stanca proiezione verso un futuro che rifiuta e i terribili abissi che, dal trauma della guerra, si aprono nella sua allucinata pesantezza di giovane sopravissuto.
Scriveva la Woolf nel suo diario: “Mi è toccato brancolare un anno intero per scoprire ciò che io chiamo il mio procedere per gallerie: in tal modo racconto il passato a rate come e quanto mi occorre.” E queste “caverne scavate dietro ai personaggi” diventano come quei “buchi neri” di massima attrazione e condensazione di cui parla l’astrofisica contemporanea. In esse il flusso mentale dei personaggi sprofonda, per riaffiorare con squarci di possibilità ripescati o raggiunti. Septimus sprofonda fino in fondo, fino al suicidio; Clarissa, pur intuendo quella voragine del nero e della morte, riesce a compiere l’acrobazia vitale, a restare in bilico sull’orlo padroneggiando la sapienza dell’attimo e dei momenti di essere.
Intorno a questi due attori principali si snodano i pensieri e i frammenti di vita di un fitto intrico di altri personaggi, in un reticolo di flussi di coscienza continuamente ripresi e interrotti, che sbriciola ogni impalcatura, ogni categoria consueta di tempo e di spazio. L’unico spazio che riconduce a una dimensione anche esterna, a un preciso realismo è Londra: Londra ripresa e descritta, in funzione del vagare dei personaggi, di tanto in tanto, nelle sue atmosfere e nella sua circostanziata toponomastica.
Uno spazio che, protetto e scandito dai rintocchi ovunque aleggianti di Big Ben, diventa anche tempo; fa scorrere – tra un monologo e l’altro – il tempo preciso dei quarti, delle mezzore, delle ore della giornata.
Westminster, Pimlico, Arlington Street, Piccadilly; Victoria, Oxford, Regent e Bond Street; Regent e St James’s Park, The Mall, San Paolo, Covent Garden; Whitehall, Trafalgar Square, Haymarket, Marylebone Road, Euston; e altre innumerevoli vie e circus e corner a dare carne e piedi a un insieme di pensieri fluttuanti. In fondo si potrebbe percorrere Central London seguendo l’itinerario balzellante di Mrs Dalloway. E perché no? magari in un fresco, luminoso mercoledì di metà giugno.