di Laura Ricci da Letterate Magazine
Foto dall’archivio familiare di Marta Albertini
Vive tra la Svizzera francese e Orvieto una pronipote di Lev Nikolaevič Tolstoj, una delle più grandi icone della letteratura mondiale: scrittore, drammaturgo, filosofo, pedagogo, esegeta, teologo, attivista sociale russo. Ci siamo conosciute, proprio a Orvieto, alcuni anni fa in occasione del centenario della morte dello scrittore (Jasnaja Poljana, agosto 1828 – Astàpovo, novembre 1910), per un’intervista che le feci sull’illustre bisnonno. Da allora siamo diventate amiche, unite da comuni passioni letterarie e dalla lingua francese, che entrambe conosciamo e amiamo. La lingua colta della Russia aristocratica dell’epoca tolstojana, del resto, quella che traccia pagine di dialogo in Guerra e pacee che torna, a tratteggiare differenze culturali e sociali, anche in Anna Karenina.
Approfittando delle sue incursioni orvietane, le ho riproposto una conversazione per Letterate Magazine, anche perché Marta sta lavorando a un libro di memorie sulla madre e la nonna. Ma spingiamoci indietro in modo da ricostruire la genealogia di alcune donne importanti che hanno circondato la vita di Tolstoj e che per la trasmissione della sua memoria sono state, a cominciare dalla moglie, fondamentali.
Marta Albertini è un’affascinante pacata conversatrice, sempre felice di rispondere a domande che possano contribuire a ricostruire i tasselli di una storia letteraria avvincente, che affonda le radici in una vasta e complessa saga familiare. Dei tredici figli di Lev Nikolàevič Tolstoj e di sua moglie Sòf’ja Andrèevna nata Bers(Glebovo-Strešnevo 1844 – Jasnaja Poljana, 1919) diversi morirono prematuramente. Degli otto che sopravvissero e che dopo la rivoluzione del 1917 si sparsero a vario titolo nel mondo, Tat’jana L’vovna Tolstaja (Jasnaja Poljana 1864 – Roma,1950), secondogenita e prima delle figlie femmine, era la splendida nonna di Marta, madre di Tat’jana Michajlovna Suchotina (Jasnaja Poljana, 1905 – Roma, 1996), mamma a sua volta di Marta e nipote prediletta di Lev Nikolaevič, andata sposa in Italia nel 1930 a Leonardo Albertini, figlio di Luigi Albertini, fondatore e direttore del Corriere della Sera.
Come ci si sente ad essere la pronipote di una icona mondiale come Tolstoj, si rischia di essere schiacciate dal suo peso?
Assolutamente no, anche perché per molti anni della mia vita ho sentito parlare molto poco di Tolstoj. La famiglia era talmente dispersa, i discendenti erano così tanti e naturalizzati in vari luoghi del mondo, avevano steso un tale velo sul passato e sul Paese d’origine che la Russia e Tolstoj rappresentavano poco o niente per loro. Mia madre era la nipotina favorita dello scrittore, tra alterne vicende i sovietici hanno sempre avuto un culto per lui, e mia madre, con mio fratello e con la mia sorella minore, sono stati ripetutamente invitati in Russia. Sarei potuta andare anch’io, ma non mi decidevo mai a partire, forse avevo timore di quel che sarebbe stato l’immancabile coinvolgimento. E quando sono andata, nel 1978, l’impatto è stato violentissimo. Mi sono trovata a Jasnaja Poljana, la tenuta di campagna dove lo scrittore visse e dove tutti i suoi figli sono nati, ho visto la sua semplice tomba in terra non consacrata perché, come è noto, la chiesa ortodossa allontanò Tolstoj per le sue idee; e lì, in mezzo a quella natura superba e intonsa, a quella luce e a quella serenità sono stata presa da un’emozione indicibile e assoluta. Poi, quando sono tornata, ho cominciato il mio lavoro di ricerca, ho voluto studiare il russo ed è in questa lingua che, successivamente, ho scritto sulle figure femminili di Tolstoj.
Sulle figure femminili dello scrittore c’è un dibattito sempre aperto. Parliamone.
Bisogna parlare di sua madre, la principessa Marja Nikolàevna Volkonskaja, che perse a poco più di due anni, una madre molto mitizzata, della quale scrisse abbondantemente nel suo primo libro, Infanzia: di lei non c’erano ritratti in casa, solo una silhouette ritagliata nella carta nera, che ha alimentato ancora di più questo grande, nostalgico sentimento d’amore. Bisogna parlare di sua moglie, Sòf’ja Andrèevna Bers, madre perfetta per i loro figli che, nonostante il rapporto molto conflittuale, Tolstoj amò moltissimo. Così come ha amato molto le figlie, direi in modo tirannico, tanto da volerle sempre accanto a sé, da desiderare che non si sposassero, tanto da concepire l’amore delle donne quasi come una forma di schiavitù. Tra tutte ha amato particolarmente mia nonna, per la sua grande dolcezza e per l’empatia che mostrava verso i genitori.
Fermiamoci un attimo sulla moglie. È una figura che, nell’esegesi di Tolstoj, spesso non ha riscosso simpatia, forse vittima di facili cliché e di una buona dose di pregiudizi: descritta come una donna dura, un poco nevrastenica, poco tollerante verso il genio che aveva accanto. È proprio così o possiamo ristabilire una diversa ricostruzione di storia quotidiana?
Ci sono ormai versioni di studio interessanti che cercano di stabilire una diversa verità. Non era affatto così, bisogna mettersi nei panni di Sòf’ja Andrèevna Bers, una donna ancora giovane e bella, molto bella, costretta a vivere a stretto contatto con il carattere egocentrico dello scrittore in un luogo isolato, in una casa tutto sommato piccola e modesta prima con tredici, poi con otto figli da accudire e educare, più tardi con problemi di salute e una schiera di venticinque nipoti. Salvo che per amarli a suo modo Tolstoj non pensava ai suoi figli, né all’organizzazione familiare né alla vita materiale in genere, non voleva muoversi dal suo tranquillo luogo.
Uno dei contrasti più forti tra lui e sua moglie fu quando lei decise di trasferirsi a Mosca per mandare i suoi figli, dopo una faticosa istruzione da autodidatti a lei affidata, al Liceo e all’Università. Sòf’ja doveva fare mille faccende – pensare all’organizzazione e ai conti di casa e tenuta, cucinare per tutti e preparare un pasto a parte per il marito vegetariano, dare lezioni ai figli, cucire, copiare le opere dello scrittore, che aveva una calligrafia pressoché incomprensibile che nessuno stampatore avrebbe mai decifrato, raccogliere le sue pressanti richieste sessuali…era una donna che non aveva mai tempo per sé. È commovente leggere nel suo diario qualche rara pagina in cui confessa di aver voluto pensare, una volta tanto, a sé, quando ad esempio afferma: “Per una volta ho avuto voglia di essere bella, ammirata”.
Qualcuno ha detto che lei non capiva Tolstoj, ma in Tolstoj c’è una tremenda contraddizione tra le idee avanzate riguardo al popolo, alla servitù, alla terra e il modo di concepire il rapporto con i figli e la moglie. E, nonostante quel che a volte si è detto sull’incomprensione di Sòf’ja verso lo scrittore, è lui che nel suo diario chiede scusa alla moglie per come non la capisce.
C’è da dire, infine, che lui e lei avevano sempre sotto gli occhi un servitore che era un figlio avuto dallo scrittore in gioventù, bene o male anche questo Sòf’ja aveva accettato.
Diciamo piuttosto che forse nessuna donna, se non Sophia Bers, avrebbe potuto vivere accanto a un uomo complicato come Tolstoj. Quello che a me piace di lei è il senso collettivo della famiglia che, intorno al patriarca egocentrico, ha saputo creare.
E le indimenticabili eroine che Tolstoj ha fatto vivere nei suoi romanzi? Natascia in Guerra e Pace, Anna Karenina nel romanzo omonimo. Anche qui c’è chi dice che in fondo lo scrittore era un moralista e, in qualche modo, ha voluto punire le sue eroine infrattive: con il suicidio di Anna o con lo spegnersi di Natascia in una tranquilla redenzione.
Non sono d’accordo, Tolstoj descrive semplicemente donne molto reali e molto umane. Per Natascia si ispirò a una delle sorelle della moglie che ammirava molto. Natascia è un personaggio bellissimo, lo è perché è giovane, appassionata e entusiasta, lo è perché perde la testa per amore e viene ingannata, lo è perché comprende, matura e si redime. Tutto è molto umano, altrettanto in Anna, nonostante la diversa, tragica fine. Con Natascia e Anna, Tolstoj vuole descrivere la donna con tutto il suo splendore e con tutte le sue debolezze, quelle che non ha avuto la sua esemplare moglie. Forse è proprio questo che in lei gli dava fastidio, “la perfezione” tra virgolette.
Per tornare alle donne reali della vita di Tolstoj, recentemente sei stata di nuovo a lungo in Russia per un tuo nuovo progetto di ricerca, ce ne parli?
Tutto nasce dal fatto che nel 1996, al momento della morte di mia madre, abbiamo trovato in una stalla di una proprietà di famiglia una vecchia valigia con dentro ben seicento lettere, tutte scritte in russo, decifrate, divise e catalogate secondo la datazione. Sono lettere ricevute da mia madre Tat’jana Michajlovna Suchotina da amici rimasti in Russia dopo l’espatrio in Francia, e altre tra lei e sua madre Tat’jana L’vovna Tolstaja, degli anni in cui vivevano a Parigi e mia madre si trovava a fare conferenze in altri luoghi d’Europa. Circa un anno fa mi sono detta che di questo patrimonio familiare, bisognava farne qualcosa e così ho deciso di continuare a scrivere su mia madre e mia nonna che amavo e apprezzavo moltissimo.
Questa volta sto scrivendo in francese, anche se ho dovuto continuare a decifrare molti documenti in russo. Sono stata infatti, per ulteriori ricerche, al Museo Lev Tolstoj di Mosca e, soprattutto, a lavorare nel colossale archivio moscovita dedicato allo scrittore, per cercare ulteriori elementi che illuminassero le lettere che mia madre e mia nonna ricevettero a Jasnaja Poljana dal 1914 al 1921, quando, dopo la rivoluzione del 1917, la proprietà è stata nazionalizzata. Fu l’unica a non essere devastata, proprio per il culto di Tolstoj che si era sviluppato in Russia, per il rispetto di cui lo scrittore godeva e, sicuramente, anche per l’energica azione della moglie e della figlia Tat’jana L’vovna, mia nonna. Mia madre all’epoca era praticamente un bambina, ma in un quaderno nero che nel 1917 segna l’avvio di un suo diario, si nota l’approccio ai preannunciati tempi nuovi di una ragazzina dodicenne che vive in un ambiente nel quale, almeno all’inizio, sia la madre che la nonna hanno fiducia, come tanti giovani, operai e contadini, nella rivoluzione. All’epoca, le tre donne si trovavano da sole nella proprietà di Jasnaja Poljana. Tolstoj era morto nel 1910 e nel 1914, dopo la morte del marito Michail Suchotin, mia nonna era andata a vivere con la madre Sòf’ja Andrèevna insieme a mia madre, sua unica figlia. Dopo il febbraio del 1917, nell’incalzare degli eventi, mia nonna scrive a Kerenskij per chiedere aiuto, giacché si trovano indifese in mezzo a razzie, violenze e rapine, e il primo ministro del governo provvisorio russo inviò, in effetti, alla proprietà cento militari e ventitré cavalli di presidio.
Marta continua a raccontare come Tolstoj fosse da tempo malvisto dal governo prerivoluzionario e dallo zar Nicola II, come fosse accusato di fomentare la rivoluzione con le sue teorie, il suo affetto per i contadini. Da alcuni documenti di archivio le è stato possibile ricostruire, ad esempio, come nel 1891, durante una grande carestia, Tolstoj abbia lanciato un appello chiedendo, con delle lettere, offerte per aiutare un amico che aveva aperto alcune mense lungo il Don. Vi fu una grande risposta, tanta era la popolarità dello scrittore, arrivarono molti rubli con i quali furono comprati orzo, farina e grano, e fu, come sempre, Sòf’ja Andrèevna a raccogliere, smistare e amministrare i fondi, organizzando tutta la filiera degli aiuti. Tolstoj – come Levin, il protagonista di Anna Karenina – andava talvolta a falciare o a vegliare con i contadini, teorizzava di una nuova organizzazione del lavoro agricolo, guadagnandosi quella popolarità o quella preoccupata malevolenza, con cui spettava poi alla moglie fare i conti nelle conseguenze pratiche, ordinarie o straordinarie che fossero.
“Ma si finisce sempre per parlare di Tolstoj – continua Marta – e io invece, nel libro che sto scrivendo, voglio parlare soprattutto di mia madre e di mia nonna, voglio ricostruire, per così dire, una genealogia femminile materiale”. E torna a ricordare come fu la nonna, dopo la rivoluzione, a costituire insieme alla sorella Aleksandra e al fratello Sergej il primo nucleo del Museo Tolstoj e ad occuparsene attivamente fino al 1925, anno in cui, insieme alla figlia, per varie ragioni lasciò la Russia. Erano infatti diventate poverissime, perché Tolstoj, preso dalle sue idee di universalismo e dalla forte amicizia con lo scrittore e pubblicista Vladimir Čertkòv , nel 1910, poco prima di lasciare la sua casa e di morire nei pressi della stazione di Astàpovo, aveva designato Čertkòv come esecutore testamentario e depositario dei suoi manoscritti e lasciato al pubblico dominio i suoi diritti, perché fossero utilizzati per il benessere dei contadini. Erano poverissime e osteggiate.
“Mia madre amava e ha sempre amato il teatro – racconta Marta – voleva recitare e dal 1921 al 1925 si era iscritta all’Accademia teatrale di Mosca ma, proprio nel ’25, ne fu allontanata perché sgradita in quanto nipote di Tolstoj. Sia per questo clima politicamente e psicologicamente pesante, sia per la povertà, lei e la nonna lasciarono la Russia e si stabilirono per un certo tempo a Praga e successivamente a Vienna, dove Alexander Moissi, un attore albanese che aveva recitato ne Le cadavre vivantdi Tolstoj, colpito dalla loro estrema indigenza procurò loro un passaporto per emigrare verso Parigi.
Che ricordo hai di tua nonna, la secondogenita dello scrittore?
Sono sempre stata molto legata a mia nonna Tat’jana, da cui ho imparato il francese, la nostra lingua affettiva di comunicazione, e di lei ho sempre ammirato il carattere dolce e vitale, la capacità di sapersi inventare mezzi e risorse per sopravvivere, come ad esempio confezionare fiori, scialli e altri lavori a maglia da vendere, e poi aprire una pensione per studenti e profughi. Ricordo sempre il racconto che mi faceva di un pomeriggio in cui, con la mamma, si erano trovate, nei primi duri tempi a Parigi, di fronte a un cinema in cui si dava Anna Karenina. Loro avrebbero voluto vedere il film, ma non avevano i soldi e la mamma allora, almeno per una volta aveva recriminato sul fatto che se Tolstoj non avesse lasciato i suoi diritti al popolo le cose sarebbero andate diversamente. Madre e figlia hanno sempre vissuto molto vicine, dal 1930, dopo il matrimonio di mia madre, a Roma, e insieme si sono sempre dedicate a tramandare la memoria di Tolstoj. Mi sembra che sia ormai venuto il momento di ricostruire, invece, la loro memoria, ed è quello che sto cercando di fare.
Abbiamo molto parlato di parte della tua famiglia, di queste donne eccezionali che hanno intrecciato la loro vita con quella di Tolstoj. Ma per finire, indipendentemente dall’essere pronipote di Tolstoj, ci racconti chi è Marta Albertini?
Marta Albertini è una donna che ha cresciuto praticamente da sola quattro figli. Ho una cultura francofona, ho scoperto Parigi con grande gioia e curiosità a quattordici anni con mia madre e ho frequentato, a Roma, il Liceo Chateaubriand. Quando nel 1987 la mia ultima figlia ha deciso di frequentare l’Università a Parigi sono partita con lei. Lì mi sono iscritta a un corso di Storia dell’arte a Versailles, dove successivamente ho insegnato Storia della ceramica turca. Poi ho vissuto a Istanbul e, al ritorno, ho frequentato l’École du Louvre: Storia dell’arte per quattro anni, con specializzazione in Storia dell’arte del mondo islamico. In Francia ho fatto anche molto volontariato, in case di riposo e ospedali.
Ho quindi trascorso alcuni mesi a Londra, dove ho frequentato un altro corso di arte islamica. Nei paesi islamici ho viaggiato molto. Ho tradotto vari testi e ho pubblicato un libro tratto dai diari di Alberto Albertini, fratello di Luigi Albertini e codirettore del Corriere della Sera. Non dimentico, infatti, anche l’altro ramo della mia famiglia, dove ho avuto un altro bisnonno di stampo letterario piuttosto celebre, Giuseppe Giacosa, padre di mia nonna Piera Giacosa Albertini. Poi la vita mi ha fatto arrivare a Orvieto, pur vivendo in Svizzera e talvolta a Parigi dove ho splendidi nipoti. Ma qui a Orvieto torno sempre volentieri.