di Laura Ricci
dal n. 51 della rivista “Il Ponte rosso”
Si chiamava Mileva Marić, era nata in Serbia nel 1875 da una famiglia benestante che ne incoraggiò gli studi brillanti e, per una donna del tempo, del tutto insoliti: al liceo ginnasio reale di Zagabria, dove fu la prima donna ammessa, quindi a Berna, dove si diplomò, e al Politecnico di Zurigo, di nuovo prima e unica donna a frequentare quella classe di Fisica in cui nel 1896 incontrò come compagno di studi Albert Einstein. Lui aveva diciassette anni, lei quattro di più; lui era insicuro, impacciato, asociale, lei più equilibrata e volitiva, protettiva e sollecita. Il resto, almeno sommariamente, è noto: i due studiano insieme, si appassionano a determinate teorie su cui insieme lavorano, si innamorano, per lavorare meglio, e di certo anche per amore, nella stanzetta di lei finiscono per convivere. Ma al momento della tesi di laurea, nel luglio del 1900, lei non riesce a conseguire il diploma, sia perché vigono molti pregiudizi da parte delle commissioni esaminatrici nei confronti delle studentesse, sia perché è molto agitata per essere da poco venuta a conoscenza che il suo rapporto con Albert è fortemente osteggiato dalla madre e dalla sorella di lui. Mileva cerca di non scoraggiarsi e mentre Albert comincia a cercare lavoro – ma non è facile, con il suo terribile carattere – ritenta l’esame l’anno successivo. Tuttavia è una catastrofe: nel frattempo, infatti, è rimasta incinta, e non solo durante l’esame si sente molto male, ma l’evidente stato di gravidanza, sempre per i pregiudizi dell’epoca, le rende ancora più ostile la commissione. Da allora – pur se continuerà a esercitare per qualche anno la sua intelligenza e il suo lavoro scientifico a vantaggio di Albert, con cui si sposerà nel 1903 – non solo è la fine di quella carriera da scienziata che aveva desiderato per sé, ma è l’inizio di una tragica spirale di dolore che l’accompagnerà per tutta la vita.
Sulla storia di Mileva Marić e Albert Einstein sono stati scritti vari libri, la maggior parte non tradotti in italiano, ma l’interesse per la figura di Mileva si è riacceso ultimamente nel nostro paese da più fronti. Per una biografia romanzata della scrittrice croata Slavenka Drakulić tradotta e pubblicata nell’agosto 2019 da Bottega Errante Edizioni con il titolo Mileva Einstein. Teoria sul dolore, e per un fatto di cronaca diffuso il primo novembre 2019 da Gabriella Greison tramite Repubblica.it: il rifiuto del Politecnico di Zurigo di concedere a Mileva la laurea postuma, in ragione di una richiesta che aveva inoltrato la stessa Greison. Gabriella Greison, che è fisica, scrittrice e attrice di teatro, e che scrive e interpreta monologhi e romanzi che hanno come sfondo la fisica quantistica e scienziati e scienziate del XX secolo – ha scritto anche un monologo e un romanzo dal titolo Einstein e io (Salani, 2018) – aveva inoltrato la proposta spinta da una studentessa di quarto liceo, che aveva avanzato l’idea sentendole raccontare la vita di Mileva. “Perché non è giusto – aveva detto la studentessa – che le cose siano andate così, e comunque ora possiamo rimediare. Noi non ne possiamo più di sentire storie di donne che finiscono male”.
Avevo appena finito di leggere il libro di Slavenka Drakulić quando ho appreso questa notizia, e avevo già deciso di parlarne non tanto perché racconta una storia di “donne che finiscono male”, ma per come la racconta e per quello che la storia di Mileva può, anche nel nostro tempo, insegnare. La biografia romanzata di Drakulić è tratteggiata su un piano finemente psicologico, la narratrice si pone da un punto di vista onnisciente ma entra e esce dalle pagine continuamente, centellinando gli eventi con sapienza e misura e guardandoli attraverso il pensiero – e il dolore – di Mileva; storicamente documentata, riporta anche molti stralci delle lettere che Mileva e Albert si scambiarono: non quelle d’amore però, pubblicate da Bollati Boringhieri nel 1992, ma quelle dopo la separazione e il divorzio, che Mileva concesse ad Albert solo nel 1920. Tant’è che il libro comincia nel 1914, con le due lettere in cui Albert, che già da tempo intratteneva un rapporto con la cugina Elsa Einstein Löwenthal, detta alla moglie le umilianti condizioni che erano il presupposto perché potessero continuare a vivere insieme: come due estranei, o meglio come serva e padrone. Lo scopo era in realtà che Mileva, come fece, non le accettasse e lo lasciasse libero, tanto più che poco dopo l’arrivo della moglie e dei figli a Berlino aveva affittato anche l’appartamento dove vivevano insieme a lui, costringendoli a rifugiarsi presso amici.
Fino a qualche tempo prima Mileva era stata per Albert una stimata compagna e una valida collaboratrice. “Sono talmente fortunato ad averti trovata – le aveva scritto da fidanzati nell’ottobre del 1900 – una persona che mi sta alla pari, forte e indipendente quanto me!”. Con lei aveva avuto la possibilità di una maturazione emotiva e intellettuale che lo avrebbe portato alle sue prime grandi scoperte: la teoria della relatività ristretta, sulla quale è Mileva che gli dà un notevole contributo con la matematica basilare che sottende, poi quella della relatività generale. Quando finalmente Albert trova lavoro all’Ufficio brevetti di Berna dal 1902 al 1909, dato il tempo scarso che a lui rimane, è lei che lo aiuta negli articoli scientifici che lui via via pubblica e che gli permetteranno di entrare con l’insegnamento di Fisica teorica all’Università di Zurigo; non potendoli firmare con lui però, come fecero invece i coniugi Curie, perché non aveva una laurea e una sua firma non avrebbe avuto senso. Cosa aveva portato, dunque, a quell’estraneità, a quell’insanabile dissidio?
Due sono i nodi che rinveniamo attraverso il libro di Drakulić: la mancata laurea e l’abbandono della prima figlia Lieserl, che crearono in lei sensi di colpa irrisolti portandola, via via, alla cancellazione di sé e a un dolore così forte e irrimediabile da procurarle, a varie riprese, problemi cardiaci e gravi disturbi psicosomatici nella mobilità, già compromessa dal suo essere claudicante dalla nascita. Senso di colpa verso il padre, che aveva incoraggiato i suoi studi e che lei aveva deluso; senso di colpa ancora più inestinguibile per l’abbandono a casa dei genitori, a Novi Sad, di quella bambina che aveva partorito lì e che lì aveva lasciato per tornare da Albert, per quella debole neonata che non aveva potuto riprendere, come nelle intenzioni, quando lui avesse trovato un lavoro e si fossero coniugati perché a poco più di un anno era morta. Senso di colpa che forse la fece essere fin troppo protettiva con i due figli successivi, Hans Albert e Eduard, sospingendola in un ruolo sempre maggiore di accudimento mentre la fama di Albert cresceva e lo allontanava da lei e dall’impegno della famiglia. Fino alla sempre più seria relazione di lui con la cugina Elsa quando si reca a Berlino come direttore dell’Istituto di Fisica dell’Università, fino a quelle umilianti condizioni del 1914 che Mileva rifiuta tornando con i figli a Zurigo. Da allora le lettere tra Mileva e Albert continuano a incrociarsi, ma parlano ormai solo di questioni economiche e dei figli, che al momento della separazione hanno dieci e quattro anni, e la cui educazione è completamente delegata a una madre ormai sfinita e dolente, che pur notando l’assenza e l’immaturità del padre continua a vedere in lui un punto di riferimento: colui a cui ha sacrificato tutto, che pensa solo a sé, che non c’è, se non economicamente – Mileva non fa che constatarlo –e che tuttavia lei continua a sentire come una figura a cui vorrebbe appoggiarsi.
Ma non c’è pietismo nella biografia di Drakulić, e neanche rivendicazionismo sbrigativo. Piuttosto l’autrice indaga nell’animo di Mileva per comprendere cosa la portò a rinunciare a sé stessa, e quanto, come nelle storie di sopraffazione accade, fu lei stessa complice del suo pur autorevole carnefice. Qui non è questione di capire quanto Mileva apportò alla fama del marito –fino al 1905, quello che è definito l’annus mirabilis di Einstein per gli importanti articoli scientifici che allora pubblicò, vi concorse di certo in modo notevole –ma perché non si laureò e perché sconvolse così profondamente il suo ruolo tanto da passare da intelligente collaboratrice a serva invisibile. Non interessa né compiangere né condannare, interessa capire.
È l’abbandono della figlia il tarlo che scava, e la rinuncia alla laurea, alla sua laurea. Della figlia, per quel poco che la piccola visse, Albert non si preoccupa, in vista della sua carriera rimanda continuamente il momento di andare a prenderla. “Perché non erano andati subito a prendere Lieserl? – riflette Mileva – Perché non ci era andata da sola? Perché Albert aveva avuto bisogno di lei più di una neonata? […] La verità è che pure io avevo bisogno di Albert. Lui mi infondeva sicurezza. Grazie a lui mi sentivo vera”. Quanto alla laurea mancata, lui concentrato su di sé e non comprendendo le sue ambizioni, non aveva dato al fatto alcuna importanza. “Non sarà la fine del mondo”, le aveva detto laconicamente, poi si era rallegrato delle proprie prospettive e non ne avevano parlato più. “Si comporta come se non gliene fregasse niente della mia laurea”, pensò Mileva all’epoca. “Albert, è possibile che tu non capisca che questa è la fine dei miei ideali, le veniva da urlare a tutta voce. Ora le dispiace di non averlo fatto”.
Dopo la separazione e il divorzio Einstein economicamente c’è, pur se bisogna sollecitarlo spesso, ma è un ex marito che non ha più alcuna considerazione di quella che è stata la sua compagna, un padre affettivamente e fisicamente assente. Alla fine sembra persino riscattarsi un poco, quando devolve a beneficio della sua prima famiglia l’assegno del Nobel del 1921, e Mileva può finalmente vivere, con il problematico figlio minore Eduard, in una casa confortevole e non avere più preoccupazioni economiche. Ma un nuovo enorme dolore si abbatte sulla sua psiche e sul suo fisico già duramente provati: l’aggravarsi dello stato di salute del figlio Eduard, a cui viene diagnosticata la schizofrenia, malattia che ha colpito da tempo anche la sorella di Mileva. “Non c’è carta, caro Albert, che possa contenere il mio dolore”, scrive all’ex marito che, anche in questo caso, delega completamente a lei la pressoché ingestibile situazione: in casa finché è possibile, e poi, dopo che il figlio tenta di strangolarla, nella clinica psichiatrica di Burghölzli dove Eduard verrà ricoverato fino alla morte. Tragedie che sarebbero comunque avvenute, queste dell’ultima parte della sua vita, tare ereditarie, ma che hanno trovato Mileva in uno stato di profonda solitudine, a sua volta in preda alla malattia fisica e psicosomatica. “La malinconia la attaccava come una bestia feroce, divorandola da dentro”, scrive di lei Draculić.
Ah se lui, dopo quell’esame andato male, avesse sostenuto le ambizioni di lei e l’avesse spronata a tentare di nuovo altrove; se con lei avesse avuto il coraggio di prendere la figlia che poi morì, senza preoccuparsi di eventuali risvolti negativi sulla sua carriera! La storia forse sarebbe stata diversa, almeno quella di Mileva. Ma nella vita reale qualunque storia non è fatta di se e di ma, è composta di quanto è accaduto. E come in altri casi, un grande genio si rivela pessimo uomo nei rapporti familiari.
Nel negare a MilevaMarić la laurea postuma – perché non esistono articoli o pubblicazioni che dimostrino le sue competenze di Fisica e perché non è prevista, burocraticamente, una procedura che contempli l’assegnazione di una laurea post mortem – alle spiegazioni anche informali richieste da Gabriella Greison dal Politecnico di Zurigo concludono: “Proviamo compassione per Mileva, ma ha avuto il peggior marito che una donna possa avere. Einstein ha ostacolato il percorso di Mileva nella scienza. Capitava spesso in quegli anni alle donne; quello che è successo a Mileva è successo a tante donne”.
Oggi i tempi sono cambiati e fatti come questi, almeno a tale livello, non accadono più, ma prudenzialmente – affinché storie simili, anche con protagonisti meno illustri, non debbano ripetersi – la lezione, sbrigativa ma salutare, potrebbe essere: anche se certi uomini, certi «Einstein» non aiutano, mai lasciarsi sopraffare dal senso di colpa, specie quando non si è le uniche responsabili, mai rinunciare alle proprie ambizioni e al desiderio. Abdicare a sé stesse è il primo, forse inguaribile presupposto di ogni teoria sul dolore.
Slavenka Draculić
Mileva Einstein. Teoria sul dolore
Traduzione di Estera Miocic
Bottega Errante Edizioni, Udine, 2019