Spesso, in chi scrive versi e ha la fortuna di conoscere qualche lingua almeno quanto basta per leggere e gustare poesia in versione originale, si fa avanti, a un dato momento, la tentazione di cimentarsi nella rischiosa impresa del tradurre. Pur sapendo, ancor prima di iniziare, che il proprio mettersi a servizio del testo non potrà mai rendere, di quel testo, la meravigliosa e unitaria perfezione. Voler fare mediazione linguistica, specie nella poesia richiede sempre un atto di umiltà: sappiamo che per quanta cura e per quanto amore metteremo nell’impegno, produrremo comunque una diminutio.
Perché dunque arrischiarsi a una tale impresa? Perché misurarsi, da poeti o poetesse, con le grandi voci che ci hanno preceduto, avvinto, ammaestrato? Talmente immense, oltretutto, da incutere un religioso timore.
Per amore di quelle voci e della materia, indubbiamente, di quel ritmo e di quella musica – armonica o disarmonica, piana o sincopata – che, al di là del messaggio, ne hanno fatto poesia. E, nel mio caso, per quell’attitudine che mi piace definire come “poetica dell’amorosa costrizione”, una scelta che sottende la mia scrittura anche quando si esplica in prosa, tanto più quando si manifesta in versi. Nulla nel mio lavoro di scrittura nasce o procede a caso, come nella ricerca rigorosa e amorosa della mistica è nella costrizione che la parola cerca la strada. Perché se ha una qualche ambizione creativa, la scrittura, è libertà o addirittura infrazione, ma ragionata. Lo insegna, per fare un esempio fra tutti, la perfetta meraviglia formale delle composizioni, classiche o dissacranti, di Arthur Rimbaud.
Anche la traduzione è una costrizione amorosa, un ascolto profondo, analitico, reiterato del testo, con lo scopo di suggellare quell’imprescindibile amoroso vincolo che porterà a ricrearne, nella lingua d’arrivo, l’intenzione e lo stile presenti nella lingua originale. Una veicolazione della “lingua pura della poesia”, asseriva Walter Benjamin, operazione ben più ardua e ambiziosa di una semplice trasposizione di significati; una ricreazione che si consegue solo procedendo in libertà, ma anche in estrema lealtà con il dettato linguistico e stilistico del testo a cui chi traduce si vota.
In questo lavoro a costringere gentilmente sono state le rose e, con loro, la struttura formale in cui, da alcune grandi voci poetiche, sono state racchiuse. In amorosa costrizione, nell’epoca in cui tutto può essere infranto e permesso, in cui anche la parola rimbomba e risuona nella più ampia, talvolta perniciosa libera approssimazione – etica, comunicativa, stilistica – ho voluto rispettare, dei componimenti scelti, non tanto e non solo il senso, quanto la loro stessa costrizione amorosa: la forma, il ritmo, la rima, la musica. Non è stata impresa facile. A sorreggermi ho avuto dalla mia una buona dose di ostinazione, l’incrollabile fiducia nella tacita attesa e nei molti, fertili rivoli di parola che affiorano da quel fare silenzio e vuoto. A guidarmi sono state le rose: quelle dei poeti e delle poetesse che, nei secoli, della marcescibile-immarcescibile rosa hanno cantato e scritto.
Perché ho scelto “la rosa” non necessita di approfondite spiegazioni. Emerge, in molti e diversi petali, dal percorso di lettura di questo libro: “vanitas” talmente potente, “la rosa”, da aver rovesciato in un eterno opposto, in quanto segno, la varia e diversa simbologia da cui è stata, nei secoli, caricata, e che ben si evince dalla varietà delle voci e dei testi selezionati. Simbolo di bellezza e caducità, di divina perfezione e terrena finitezza, di passione ardente e purezza, di seduzione e innocenza, di pienezza e segreto mistero, in ambito poetico si carica di significati ancora più variegati e talora eccentrici, specie man mano che si arriva alla modernità.
Così, accanto alla simbologia or ora accennata che lettori e lettrici avranno rintracciato agevolmente nei testi proposti, talvolta la rosa diventa ella stessa, più o meno palesemente, figura femminile incarnata: dalla dama degna di ogni considerazione del Roman de la Rose che “doit Rose être nommée”, alla “Red Rose, proud Rose, sad Rose” di W. B. Yeats, che è al tempo stesso la donna amata e la patria Irlanda; fino alla tanto discussa “Rose is a rose is a rose” di Gertrude Stein che, al di là di ogni possibile interpretazione filosofica, è soprattutto “Rosa”, un nome-numen femminile, che percorrendo le associazioni-suggestioni eufoniche dell’autrice si fa fiore e, a seguire, quant’altro di purché illogico nell’incalzante procedere dello stream of consciousness autoriale. Misteriosa, arcana, e densa di rimandi letterari, è l’immarcescibile-irraggiungibile rosa di Borges, con il suo denso e reiterato “lei”, sensualmente ardente e, al tempo stesso, joven flor platónica, innocente fanciulla-fiore. Causticamente folgorante è la rosa di Alejandra Pizarnik, che con una sintetica coppia di distici non solo sovverte la visione abituale del mondo, ma fa dell’osservazione della rosa una polverizzante visione mistica.
Quanto alle rose di settembre di Senghor, sono state scelte per l’assoluta rarità di questo fiore-simbolo nella sua poesia, e perché è sembrato interessante contrassegnare una differenza culturale. Le rose, nella cospicua produzione di Senghor, appaiono solo in due poemi della sua piccola silloge Lettres d’Hivernage, dedicata alla seconda moglie Colette Hubert, originaria della Normandia, e non hanno qui alcun valore simbolico, ma semplicemente evocano la donna amata tra i fiori e i profumi del giardino della loro casa normanna. La rosa infatti non viene coltivata in Senegal, e tanto meno interessa associarla, nelle culture di questa terra, alla vasta simbologia della vanitas che rappresenta in molte letterature: giacché il simbolo per eccellenza del Senegal è il baobab secolare, ossia non ciò che in breve muore e svanisce, ma ciò che dura a lungo e resiste.
È sembrato infine opportuno inserire nel lavoro schede bio-bibliografiche sugli autori e sulle autrici che non si limitassero a pochi cenni ma che, sia pure senza entrare esaustivamente nella loro vita e nelle loro opere, potessero abbozzare un loro ritratto veritiero, così da incuriosire e da suscitare il desiderio di entrare nella loro consistenza in modo autonomo e più approfondito.
Laura Ricci in Rose fresche aulentissime