Tira fuori la testa
usa le mappe
tallona il sogno
l’inatteso paesaggio
tienilo bene a mente
stretto nello sguardo.
Nelle morbide nicchie
più appartate del cuore
conservalo con garbo.
(Alessio Brandolini)
Nate dal suo viaggio a Medellín, dove nel giugno 2004 ha partecipato alla XIV edizione del consueto “Festival internazionale di poesia”, queste Mappe Colombiane di Alessio Brandolini sono diventate testo edito solo nel marzo 2007, per i tipi della collana Aretusa delle edizioni LietoColle. A lungo elaborate dall’autore sono state precedute, nella pubblicazione, da testi scritti posteriormente, quelli de Il male inconsapevole (Il Ramo d’Oro, Trieste 2005): non ce ne chiederemo troppo la ragione, dato che se c’è un luogo dove la cronologia non ha senso è proprio quello della scrittura e, nella scrittura, della poesia in particolare. La mappa, per sua natura, mette a fuoco in modo dettagliato una porzione relativamente ristretta di territorio, e forse l’autore ha voluto dettagliare fin nei particolari più minuti un’opera che non solo appare un caposaldo della sua produzione, ma ripercorre un’esperienza che ha segnato in modo forte la sua vita e il suo immaginario, attraverso luoghi, relazioni, sentimenti, sensazioni, elaborazioni. Ancorata allo spazio con forti connotazioni simboliche, la mappa può tuttavia scegliere il suo tempo “storico”, disegnare l’assetto della contemporaneità o tracciare il reticolo di più antiche coordinate: ponte tra presente e passato, può restituire epoche arcane e arcaiche o addirittura ipotizzare situazioni preumane. Quale territorio, dunque, per tracciare ed essere tracciati, più suggestivo della Colombia, del suo antichissimo mistero tutto da raffigurare e da scrivere?
Prima c’era il mare
che era lo spirito
di tutto quello
che sarebbe accaduto
dava cibo al nostro pensiero
sosteneva la futura memoria.
(…)
pag. 84
Così tra Bogotá e Medellín, tra volti nuovi e luoghi di originario stupore, il poeta ondeggia tra presente e memoria, nuove prospettive ed improvvise epifanìe, attesa e rimpianto, accidia e speranza, segnando la carta di solchi spaziali e interiori, estraendo nuovi occhi e nuova linfa dal viaggio:
(…)
Vivo sordo
pieno di peli
e foglie gialle.
Mi spargo nel buio
intanto erodo
le parole scavate nella roccia
nell’acqua mi scrosto dal male.
Nei fossi di confine
c’è la traccia d’amore
che da mesi ristagna.
(…)
pag. 44
E ancora:
Canto e ascolto
l’allegria degli uccelli
sotto l’ombra
delle statue di bronzo
la voce che proviene
da un mondo nuovo
che ancora non conosco
(…)
Contamina le mani
modifica lo sguardo
ossigena l’oscurità
senza fine del pozzo.
pag. 48
Ad accogliere la speranza di nuove segrete mappe, di un ossigenante leggero andare – è “un tipo sciolto, persino più alto” il Brandolini che assapora il gusto forte di Bogotá – sono il profilo terso delle Ande, l’eterna matura primavera, l’inebriante splendore di giugno: il mese del festival di poesia di Medellín, quello della nascita, il più bello, che poi è anche un esplicito richiamo alla “Terra desolata” di Eliot (“April is the cruellest month…”). Intenso e ricorrente nei versi del poeta, “Giugno” è l’incipit: del testo, della vita, dell’eros, del viaggio, del nuovo corso che si schiude, di quel flusso nostalgico che sempre, la perfezione, sprigiona già nel momento in cui è goduta:
Giugno è il mese più bello
lo gridano i colori
l’intensa notte equatoriale
con il verdeggiante rumore.
(…)
L’arazzo delle stelle
snuda la schiena
impervia delle Ande.
Ho bisogno d un flusso
discreto di carezze
di questa luna audace
che arrossa il buio
calma i colpi del cuore
rafforza la memoria
dona allegria alla voce
e al pianto dell’esilio.
pag. 13
Nel rigoglioso, continuo espandersi dell’universo subtropicale – dove come ben fa notare Armando Romero nella sua intensa introduzione “Non si nasce, non si muore, ma è la solita violenza che si trasforma costantemente” – il poeta percepisce le immense possibilità del caos, con la forza della parola se ne fa interprete e demiurgo, ne stabilisce un più o meno sensato ordine, ne traccia una mappatura esotica che si farà memoria per sovrapporsi, con ardite e inattese incursioni, al domestico campestre delle poesie della terra: sconvolgendo spazio e tempo e piegandoli, con grande naturalezza, a un continuo simultaneo agguato. Come accade, del resto, nel magico delle civiltà australi e in ogni vita ricca di immaginario. Così, può starsene nella classe turistica del ritorno e trasformarla, masticarla nella paura del non essere fino a renderla erba morbida e silenziosa; far scandire al paesaggio, già nel presente, i nomi dei luoghi e di tutte le persone incontrate, conservarle per sempre nelle tasche del cuore; lasciar invadere il suo territorio abituale di bestie esotiche per poi chiedere, in un ironico affettuoso guizzo, che l’amico poeta Romero torni a Roma a riprendersele.
Come Alessio Brandolini stesso afferma, ogni suo viaggio poetico ha radici nell’opera che lo precede e getta ponti verso la successiva: [“Al Museo dell’oro ho trascritto / nella mitologia Koghi una frase / perfetta per il mio fiume nel mare”], ovvero al libro di poesia Il fiume nel mare, annunciato in alcune sue sillogi inedite apparse su riviste. Se situiamo le sue Mappe colombiane in ordine di creazione piuttosto che di edizione, il loro solido corpus subtropicale si intreccia, effettivamente, con continui rimandi, realistici o nostalgici, alle Poesie della terra (LietoColle, 2004) e anticipa, nelle note sofferenti che continuamente fanno da contrappunto alla gioia, la pena rosso sangue de Il male inconsapevole [“Di notte torno sui miei passi / come faccio sempre e mi guardo / leggere un testo in cui parlo / di una fabbrica abbandonata / alla periferia di Roma”, che poi è la poesia “Largo Preneste” contenuta ne Il male inconsapevole]. Non mancano, infatti, né accenni alla violenza sociale della terra di Colombia, né a una dimensione più universale del dolore e della caducità della condizione umana, di cui diventano metafora il sangue della foresta, l’eccesso inquietante del barocco, il frutto maturo bloccato appena prima del processo di decomposizione e fatiscenza.
Demiurgo della materia e della forma, il poeta veglia su ogni pulsione con il suo abile verseggiare, riconduce ogni accento alle asciutte, peculiari armonie del suo verso breve spezzato di moderne dissonanze, sparge ironia affettuosa sul rischio della retorica, alza il quotidiano verso le stelle, stempera il sale del cuore in un moderno panteismo fino a rendere corpo il creato e, il corpo, elemento di un’agognata silenziosa unione con ogni altro elemento dell’universo:
Pettino con le mani
i capelli increspati
del buio tropicale.
Sciolgo i fili annodati
delle stelle e del sole.
Mi accendo questa sera
e a lungo ti accarezzo
con tutto il corpo
ti stringo ad occhi chiusi
ti regalo il sale del cuore
poi ascoltiamo in silenzio
le proposte della savana
gli audaci pensieri del vento.
pag. 53
Esperienze ed emozioni così forti non possono avere né un ora né un prima né un dopo; come è ben condensato nell’epigrafe della raccolta, improntata al poeta colombiano Giovanni Quessep: “Ogni speranza ha la sua memoria, / un sole di ferro, un pianto d’esilio”.