Siamo nel 1117. Abelardo è un filosofo di successo, professore di logica a Parigi, quarantenne, dagli allievi “amatissimo”. Eloisa è una ragazza colta e intelligente di buona famiglia, educata al monastero dell’Argenteuil, senza genitori – suo tutore è uno zio – ha sedici anni.
Per ragioni essenzialmente culturali, al ritorno di lei a Parigi i due si incontrano: maestro e allieva. Nasce un amore singolare e grandissimo, di passione e intelletto, di parole e desiderio. Lui scrive per lei poesie e canzoni – musica e filosofia erano spesso collegate all’epoca – che gli studenti diffondono velocemente negli ambienti di Parigi e in altri luoghi; lei, che ha conquistato un pensatore così brillante e stimato, è tra le donne più invidiate.
Amour-passion, amour-fou: lei lo racconterà nelle sue lettere con grande quasi blasfema sincerità e immutato ardore; lui, con toni più cauti e pacati, nell’autobiografia dal titolo tutt’altro che entusiasta, Storia delle mie disgrazie.
Spavaldamente vicini, senza nessuna precauzione, in modo troppo trasparente per l’epoca, quest’amore i due non lo vivono che un anno; poi la famiglia e la società intervengono, Eloisa viene allontanata. Ma aspetta un figlio. Abelardo la rapisce e offre alla famiglia – purché resti segreto per non adombrare la sua aura professorale – un matrimonio riparatore: che lei non vorrebbe, ma che alla fine, piegandosi come sempre al volere di lui, accetta. “Piegandosi” non per carattere debole, ma per intellettualità, perché così volevano i testi sacri del tempo: il De Amicitia di Cicerone, l’ Ars amandi di Ovidio, le suggestioni platoniche, che diffondevano il modello dell’amore che non si cura di sé ma solo dell’altro, mescolanza di libera scelta e di resa fatale all’eccellenza dell’amato.
Tuttavia la famiglia di Eloisa divulga la notizia. A quel punto Abelardo rapisce di nuovo la fanciulla e la riconduce al monastero dell’Argenteuil, dove aveva studiato, costringendola a prendere i voti, con l’intento di tornare alla sua filosofia e al suo prestigio. Per vendetta, dalla famiglia di lei, secondo un costume allora abbastanza diffuso, Abelardo viene evirato. Per il brillante maestro l’umiliazione è tale che, invece di tornare al successo, si ritira, provato e insicuro, a far vita monastica a Saint-Denis: storia delle sue disgrazie, appunto.
Benché monaca per forza, Eloisa, per le sue capacità organizzative e umane, per la sua cultura, è buona monaca e diventa priora; monaca un po’ alternativa e ribelle tuttavia, tanto che il monastero dell’Argenteuil, nel 1129, viene chiuso e le consorelle scacciate.
Abelardo le offre allora una piccola proprietà chiamata Il Paracleto, dove lei si trasferisce con la sua piccola comunità. È allora che i due amanti si incontrano di nuovo, ovviamente su un piano ormai intellettuale e teologico, ma comunque fortemente appassionato e affettivo, per separarsi poi definitivamente di fronte ai sospetti e alle maldicenze generali.
Il loro epistolario risale agli anni del Paracleto e della separazione, ed è davvero singolare. Perché lei rievoca i tempi del loro amore, dandone esatta testimonianza, con un desiderio vivido e nettissimo, senza alcun pentimento, dichiarandosi ancora dedita a lui e non a Dio, monaca per forza e non nell’anima, monaca incapace di mentire: – persino nella preghiera, persino durante la messa, ho davanti agli occhi sempre e soltanto te, l’amore che abbiamo avuto, i luoghi dove ci siamo amati, i momenti in cui siamo stati vicini. Invece di piangere pentita per il passato, sospiro rimpiangendo quello che ho perduto – tra l’altro scrive. E lui risponde incitandola alla rassegnazione, al pentimento, alla cura dell’anima. Certo è molto più cauto, si controlla; ma di tanto in tanto anche dalle sue parole affiorano stima, tenerezza, trattenuto diverso affetto.
Ma Eloisa non si pentì; solo accettò, a un certo momento, di non parlare più di quell’amore e del passato: pur di avere e di scrivere parole, non più d’amore ma teologiche e di pensiero; parole al posto dell’amore, per un’intellettuale quale lei fu pur sempre amore. Quando Abelardo morì (1142) volle essere sepolto al Paracleto e, nel 1164, alla sua morte, Eloisa fu sepolta accanto a lui. Tuttora riposano insieme, in una cappella votiva nel cimitero parigino del Père Lachaise.
L’amore tra Eloisa e Abelardo non fu paritario, è lei soprattutto che esercita sincerità e passione, tanto da aver indotto un filone di interpretazione a dubitare dell’autenticità del loro carteggio epistolare: è il filone che adotta, sul Medioevo, un preconcetto, ritenendolo alieno all’ardore di una monaca non pentita e ancora bruciante d’amore.
Ma Dronke, grande studioso della letteratura del XII secolo, dimostra ad esempio, attraverso varie testimonianze poetiche dell’epoca, quanto sia stata grande la partecipazione emotiva e simpatetica dei contemporanei alla vicenda dei due amanti. Il Medioevo in realtà, come anche la tradizione dell’amor cortese indica, affidava al matrimonio funzione sociale e collocava altrove quel che Eloisa stessa definisce l’amore da virtù, l’amore libero e sincero: la passione amorosa suscitava allora più commozione che sarcasmo, ammirazione e pietà più che scandalo.