In procinto di assistere, al Teatro Verdi di Trieste, all’atteso dramma musicale “Tristan und Isolde” di Richard Wagner, rispolvero un mio piccolo scritto pubblicato nel 2007 sulla rivista online Fabruaria (non più esistente) e su Orvietonews.it che dava, non di Wagner ma del mito di Tristano e Isotta, una lettura di genere, intitolando il pezzo, non a caso, “Medioevo al femminile. Isotta e Tristano”. La celebre Opera di Wagner si basa su una delle molte versioni di questa altrettanto celebre storia; come del resto la mia ben più modesta interpretazione, che considera però una versione più antica, marginale e molto meno conosciuta. Ed ecco cosa, più o meno dieci anni fa, scrivevo.
Della storia di Isotta e Tristano esistono, fin dall’alto medioevo, numerose versioni, alcune addirittura comiche, nonostante l’epilogo tragico. Nelle più letterarie e famose – quelle di Thomas, Béroul, Eilhard von Oberge e Goffredo di Strasburgo, che sono dell’epoca cavalleresca (XII-XIII sec.) – insiste molta fatalità, affidata all’ineluttabile potere di una pozione bevuta per errore, ed è soprattutto Tristano a inseguire e a condurre il gioco della passione. Eppure, per chissà quale piccolo caso sommerso, ho trovato anni fa, in una libreria francese di non ricordo più quale città della Loira (forse Loches) un libricino più raro – uno di quei cosiddetti livres de poche – strutturato da René Louis secondo la tradizione celtica, in particolare quella di un aitheda dell’VIII o IX secolo, nella sua antichità più immediato, in cui la fatalità viene ridotta ed è piuttosto Isotta a gestire la scelta d’amore. Ovviamente è la mia versione preferita, il mio femminismo della differenza è noto, ed è questa che racconterò.
E così in un lontano giorno, agli albori del Medioevo, il piuttosto anziano re Marco di Cornovaglia decide di prendere moglie. Sceglie Isotta dai capelli d’oro, di cui un gabbiano gli ha portato un lungo capello, e incarica il nipote Tristano di attraversare il mare d’Irlanda, di chiedere la giovane irlandese in sposa per il re e di condurla in Cornovaglia. Tristano compie la sua missione e riparte con un’Isotta per nulla entusiasta di sposare re Marco, alla quale la madre ha consegnato un filtro, da bere insieme allo sposo perché si leghino di forte, appassionato amore. Ma in questa alternativa versione Isotta è ribelle, determinata: l’idea di amare questo re Marco che neanche conosce non le piace affatto e decide, “volontariamente” – in tutte le altre versioni è un più o meno tragico errore – di bere il filtro insieme a Tristano, dal quale si è sentita subito attratta. Altri le hanno destinato re Marco, ma lei si sottrae all’imposizione, sceglie da sola chi dovrà sconvolgerla e possederla. Non amerà lo sposo legittimo e imposto, ma piuttosto Tristano: il rapporto improbabile, conflittuale, proibito. Professa già una sua strana saggezza, che sarà confermata dal resto della storia: sa che solo le ansie e le intermittenze garantiscono, delle passioni, la tensione e l’entusiasmo, la disperazione e l’estasi; sa che il vuoto alimenta il desiderio, che il distacco lo esalta, che assenza e nostalgia fanno sì che la passione non si estingua e bruci.
In Cornovaglia i due amanti clandestini vengono scoperti, Tristano viene scacciato e deve nascondersi. Continuano a inseguirsi e a incontrarsi naturalmente, affidando i loro messaggi a un intricato sistema di segni vegetali e arborei e alla complicità di un’ancella. Finché Isotta decide di raggiungere Tristano nel bosco: questa parte del racconto, e il taglio umano e non fatale della storia che ne consegue, esistono solo in questa più antica versione; nelle altre si va diritti e fatalmente alla catastrofe. Due anni stanno gli amanti nella foresta, soffrendovi timori e pene. E, nella fatica della quotidianità, cominciano a sentire che la passione viene meno; anche perché – sempre in questa versione – il filtro è semplicemente un lovendrant, ossia una bevanda d’amore il cui effetto è destinato a estinguersi nel tempo. Consapevoli che non c’è più sortilegio, gli amanti sentono e decidono di amarsi comunque, collocando il loro amore ognuno nella propria realtà – lei tornerà da re Marco, lui si rifugerà in Irlanda – ma vivendolo volontariamente in modo libero e trasgressivo: sarà l’amore del desiderio e della distanza, dell’incontro eccezionale, dell’eterna continua ricerca. Sempre Isotta inseguirà Tristano, sempre Tristano inseguirà Isotta; sempre lei accorrerà se lui vorrà o dovrà chiamarla; e sempre lui, col suo vascello, la raggiungerà se lei ne avrà bisogno.
Così si inseguono per lungo tempo, sempre solcando, per raggiungersi, il mare d’Irlanda. La storia, secondo le regole forti di ogni mito che si rispetti, finisce tragicamente. Tristano è gravemente ferito, manda a prendere Isotta: se lei verrà la vela sarà bianca, altrimenti nera. L’altra Isotta (ce ne sono due, l’amata/amante di Tristano e Isotta dalle bianche mani), quella “cattiva e invidiosa” innamorata e non corrisposta da Tristano, gli annuncia, mentendo, che la vela è nera. Lui muore per il dispiacere; e Isotta dai capelli d’oro muore di dolore sopra di lui.
Cher ami, si est de nous
Ni vous sans moi, ni moi sans vous…
Così, sulla corteccia dell’albero avvinto dal caprifoglio che proteggeva i loro corpi, scrissero, secondo quanto recita l’antico “Lai du chevrefoil” di Maria di Francia. Così recita ancora modernamente, in un rimando dei nostri tempi che la dice lunga su quanto il mito abbia attraversato le epoche, la fine allusiva di un noto film di François Truffaut: “La signora della porta accanto”.
Ma non è il finale che conta. Soprattutto dimenticandone la tragica conclusione questa storia è tremendamente emblematica, buona per ogni tempo, senza tempo. C’era molta alternativa saggezza nel Medioevo, una sincera capacità di analisi interiore. L’interpretazione più usuale non sfugge allo schema di identificazione dell’epoca come “età oscura”, forse perché calca sulla chiesa millenarista, sui roghi delle streghe e sull’Inquisizione. Ma prima che la chiesa ufficiale ne occultasse i fermenti, e comunque ai margini della trasmissione più consueta, c’era invece molta trasgressività in quei lontani secoli, sia simbolica sia pratica.
Laura Ricci