Verso la metà del VI secolo Poitiers, nella Francia centro-occidentale, era una città importante, in cui si fronteggiavano, tutt’altro che pacificamente, due culture: quella germanica dei re Visigoti che l’avevano scelta come loro sede, e quella antiariana della comunità missionario-cristiana fondata dal vescovo Ilario. Nella città arrivò, come prigioniera di guerra, Radegonda, la figlia bambina, fiera e bellissima, dello sconfitto re turingio Bertario. Il re Clotario se ne invaghì, la portò a corte, la fece istruire e appena possibile la sposò.
Ma nella desolazione della sconfitta e delle morti del suo casato, la donna aveva fatto suo un ideale di perfezione cristiana che contrastava palesemente sia con l’istituzione del matrimonio, sia con l’ideale germanico del re, che poneva al vertice i valori del sangue, della forza fisica e della conquista militare. L’unione con Clotario fu dunque un disastro, tanto più irreversibile quando il re mise a morte un fratello di Radegonda da lei particolarmente amato, Clotacario. Fu allora che, con il suo straordinario temperamento, la regina riuscì a lasciare la corte con il consenso di Clotario; e a farsi consacrare religiosa, pur essendo sposata, dal vescovo di Noyon, Medardo.
In questo contesto germanico-cristiano arrivò, verso il 567, un letterato latino, Venanzio Fortunato. Conobbe Radegonda, e ne fu affascinato; e da lui restò affascinata anche la cinquantenne monaca- regina: perché in quel giovane trovò l’affetto, pieno e terreno, che aveva provato per il fratello e che non aveva potuto realizzare nel matrimonio con Clotario.
Si stabilì tra Fortunato e Radegonda un rapporto epistolare, un fitto scambio di lettere e poesie che documenta i comuni interessi spirituali e l’attenzione ad alcune tematiche culturali e politiche, ma che non nasconde l’intensità degli affetti.
Quando nel 587 Radegonda morì, Fortunato ne scrisse subito, in prosa, la vita, mettendone in evidenza la natura specialmente misericordiosa. In una società in cui due etnie stanno confrontandosi e fondendosi, in cui le lotte di potere si manifestano con congiure di palazzo e con il ricorso alle armi e alla guerra, Radegonda mantiene la sua statura di regina e di dominatrice, mettendola però a disposizione di chi soffre: o con atti di soccorso verso i poveri e i pellegrini, o con atti di carità più propriamente politica, come quando fa liberare dei prigionieri o cerca di salvare dei condannati a morte.
Baudonivia scrive verso l’anno 600 e traccia, di Radegonda, un’immagine più interessante e varia di quella resa da Venanzio Fortunato. Non cambia il modello di santità, affidato a un monachesimo non chiuso in se stesso e presente nella storia con un forte desiderio di trasformazione del mondo; ma l’accento viene messo in modo evidente sulla psicologia di Radegonda, sui suoi desideri di donna e di cristiana, sulla sua vita mistica e, insieme, sulla sua passione politica. Quella passione che la fa rimanere in certo senso regina anche tra le mura monastiche, sempre preoccupata per la pace e sollecita della salvezza della patria e dell’equilibrio tra i regni, sempre in contatto con re e funzionari tramite le sue intense e lungimiranti epistole: un segno grande di intelligenza e generosità nell’epoca altomedievale, quando l’incontro tra la tradizione romana e quella germanica si realizza a prezzo di un permanente conflitto.
Ma ancora più emblematico e insospettabile, per un’epoca che siamo abituati a guardare con facili pregiudizi culturali, che la passione femminile abbia prodotto, affermandosi con tanta autorevolezza, amore e politica, soccorso privato e pubblico confronto; e che la passione umana e letteraria di un’altra donna ce l’abbia consegnata rendendone esattamente e amorevolmente conto.