“Nè puttane né madonne ma solo donne” era, declinato in qualche altra variazione, uno degli slogan più gettonati del movimento femminista degli anni Settanta, accanto all’altro celebre grido, danzato e scandito nei cortei di allora in zoccoloni di legno e colorati abiti folk “Tremate, tremate, le streghe son tornate”. Slogan che hanno avuto il loro corso, la loro ragione d’essere e la loro storia, riprendendo e riaffermando con forza una necessità di rivoluzione e di affermazione femminile che aveva prodromi culturali e politici ben più lontani, ma che trova proprio allora fertile radice nella rivolta culturale di Carla Lonzi e delle donne della Libreria di Milano. Una rivolta che, da pensiero, riesce a farsi pratica politica concreta e a popolare i luoghi pubblici e le piazze, inaugurando una nuova e inarrestabile stagione di libertà e di diritti che, tra marce avanti, zoppicamenti e andate e ritorni non sarà più possibile fermare. Alla sua avanzata, in un’elaborazione costante di pensiero e di pratiche politiche concorre fortemente, dal 1983, la comunità filosofica di Diotima, fondata presso l’Università di Verona per iniziativa di donne interne ed esterne all’università. È alle filosofe di Diotima che si deve, da allora, una forte e articolata elaborazione del pensiero della differenza sessuale, e una continua e preziosa ricerca di un filo di mai sopita autorevolezza femminile che, sebbene ignorata e talvolta negata dal canone e dal pensiero univoco maschile, non è solo una traccia dell’oggi ma ha attraversato, come persistente filo rosso, secoli e nazioni.
Sono per molti versi debitrice degli insegnamenti di Diotima e della forza che da essi, per una donna che vuole “mettere al mondo il mondo” a misura femminile, può provenire. Come Luisa Muraro, ad esempio, mi piace opporre alla facile retorica di ogni profeta di sventura un’inequivocabile iniezione di ottimismo: ossia che per quanto perversa la nostra epoca possa sembrare, ha comunque prodotto una grande e significativa rivoluzione positiva, quella femminile. E come Annarosa Buttarelli le donne, di ieri e di oggi, mi piace pensarle non vittime o in miseria, ma nella funzione propositiva e incisiva di “Sovrane”. E è di Sovrane, e dell’esercizio già attuato o possibile di sovranità femminile, che desidero parlare per il ricorrere, in questo 8 marzo, della Giornata internazionale della Donna: sovrane vere, che hanno diversamente governato nella storia; sovrane simboliche, che hanno esercitato (o potranno esercitare) la loro capacità di governare e di dirigere avvenimenti e situazioni da contesti diversamente autorevoli.
Di Annarosa Buttarelli “Sovrane” è l’ultimo, fortunato libro. Pubblicato da Il Saggiatore nell’agosto 2013 quest’ultimo lavoro di Annarosa Buttarelli, docente di Filosofia della Storia all’Università di Verona, sta attraversando, e per certi versi finalmente spostando, il tradizionale asse del pensiero politico, puntando l’attenzione, in una fitta serie di presentazioni, su un modo nuovo e assolutamente rivoluzionario di intendere il concetto di sovranità: una modalità radicalmente diversa da quella che ha orientato prima l’assolutismo monarchico, poi la democrazia rappresentativa e, infine, i tentativi di contenere la disgregazione degli stati-nazione; una modalità che nella storia è appartenuta alle donne, ma che in questi nostri tempi di crisi politica, economica e di valori può certamente essere considerata e assunta, come necessità di un’inversione radicale di rotta, anche dagli uomini.
Il saggio di Buttarelli si sofferma, nei capitoli della prima parte, su come il patriarcato sembri ormai tramontare come forma di dominio sulla mente e sul corpo delle donne, su quanto ovunque, nel mondo, le donne facciano rete, inventino forme di lotta, denuncino prevaricazioni e violenze; e su come, nonostante ciò, le istituzioni politiche, culturali e religiose siano ancora largamente dominate da logiche monosessuate e da una misoginia spesso inconsapevole. Per una riforma istituzionale efficace – a questo Buttarelli arriva attraverso l’argomentazione filosofica prima, e una carrellata di illustri esempi poi – occorre che si realizzi una convivenza nuova tra uomini e donne, non più regolata dal diritto maschile, dalla sola e arida ragione del pensiero unico, dalle gerarchie o dallo strapotere del denaro che hanno regolato e ancora regolano i rapporti e i mercati, quanto piuttosto basata sul principio ordinatore delle relazioni umane, mossa da affetto e intuizione e dalle leggi concrete della vita.
Nella seconda parte del libro Annarosa Buttarelli interpreta invece pensieri, pratiche e politiche create da donne che nella storia hanno consolidato proprio su tali principi la loro autorità, donne protagoniste che hanno indicato una via “differente” di fare politica e di governare. Da Elisabetta I d’Inghilterra a Cristina di Svezia, da Elisabetta del Palatinato a Ildegarda di Bingen, fino alle Preziose, le dame dell’alta società francese irrise da Molière e invece di grande cultura, sensibilità e autorevolezza che, tra Seicento e Settecento, sperimentarono un modello di socialità in cui, più che le armi o il censo, contava la finezza del pensiero e della condotta, riuscendo, come si dice oggi, “a fare opinione” e a influenzare profondamente i costumi dell’epoca e le decisioni dei potenti. Accanto a questi esempi storici due esperienze contemporanee: quella della sindaca di Ostiglia Graziella Borsatti e quella delle operaie tessili di Manerbio, comune prossimo a Brescia, che durante una vertenza sindacale tra gli anni Ottanta e Novanta, condussero la trattativa per una maggiore produttività nel lavoro richiesta dall’azienda fuori dai canoni abituali della rappresentanza sindacale, facendo trionfare la logica della qualità del prodotto e delle relazioni nel lavoro su quella della quantità e dell’utile.Nell’operato di queste donne coraggiose e consapevoli rese esemplari da Buttarelli – a cui comunque, per sua stessa ammissione, si affiancano un numero sterminato di donne meno celebri che esercitano e hanno esercitato, in ruoli più o meno autorevoli, esempi luminosi di sovranità femminile – si rintraccia la potenza liberatrice e costruttiva dell’autorità femminile quando rimane fedele all’esperienza sapienziale e sa governare e costruire fuori da ruoli e da tracce precostituite, basandosi sulla libertà intesa come recupero della priorità esistenziale e politica delle relazioni.
Così, ad esempio, Cristina di Svezia sceglie la vera regalità proprio rinunciando, ventiseenne, a quella corona puramente emblematica e di rappresentanza che le era stata assegnata a soli sei anni, pur continuando a influenzare e dirigere il suo popolo, addirittura da Roma dove si era stabilita: con un atto spiazzante e estremo, lasciando vuoto il trono, fuori dalla menzogna del ruolo e dalla finzione della rappresentanza, come Buttarelli annota “lei ritiene di governare e orientare comunque il suo popolo facendo e dicendo il vero, praticando la giustizia e il merito e camminando sapientemente nel mondo delle arti, delle scienze, della filosofia, delle lettere”. Così per meglio significare il primato attribuito alla relazione con il suo popolo Elisabetta I d’Inghilterra si proclama simbolicamente e sapientemente “Vergine”, a sottolineare lo stretto legame tra la vera sovranità e la libertà a ogni soggezione contrattuale, ivi compresa quella del matrimonio: splendida e sapiente sovrana, seppe fare del suo regno il più fulgido che l’Inghilterra abbia mai avuto. Così Ildegarda di Bingen, sapiente badessa, seppe sfidare, novella Antigone, i prelati di Magonza che le imponevano di dissotterrare dal monastero di St. Rupertsberg un nobile scomunicato: agendo direttamente in nome di Dio e delle leggi umane non scritte piuttosto che di quelle ufficialmente sancite dall’alto clero. Per non parlare di Elisabetta del Palatinato, che riesce addirittura a scalzare la chiara logica di Cartesio facendo ammettere con naturalezza all’illustre filosofo che, nella vita civile e nel governare, ci si trovi meglio a regolarsi secondo esperienza piuttosto che secondo ragione. Delle Preziose abbiamo già accenato: talmente incisive, talmente moderne, che vengono in mente le tante donne preziose del secondo Novecento ignorate, se non addirittura derise, dagli intellettuali dell’epoca. Governare con l’autorità della sapienza nelle relazioni era la loro proposta: la stessa attuata in epoca contemporanea dalle operaie di Manerbio e dalla sindaca di Ostiglia, e forse l’unica possibile nel nostro tempo e negli imminenti esiti amministrativi che ci prepariamo ad affrontare se vogliamo provare, in ultimo e sovversivo slancio, a governare e rigovernare il mondo.
Un “rigovernare” che per le donne significa anche provvedere alla casa e alle persone (più comunemente al fare ordine in cucina) – in politica alla casa comune della città e ai diversi, variegati e reali soggetti che la abitano – e che trova radice nella loro storica assunzione del lavoro di cura. Ma oggi, come Buttarelli sottolinea, non si tratta più di attuare forme sparute di buongoverno o di andare a rappezzare da possibili “salvatrici” situazioni degradate, quanto di produrre una rivoluzione simbolica che investa più diffusamente e profondamente le pratiche politiche e di governo. Per questo io credo che non solo le donne in prima persona, ma anche gli uomini che si sentono impegnati o vocati a governare debbano assumersi l’onere della sola inversione di senso e di rotta che può salvare e rendere davvero utile e fertile l’agire politico: essere donne e uomini, insieme, e insieme governare facendo crescere “la pianta della democrazia – tanto per parafrasare il pensiero chiave di questo straordinario testo – nel terreno arato dall’autorità femminile”.