Quando scrivo, o meglio quando ho concluso un lavoro di scrittura, come la Margherita dell’ultimo racconto di Dodecapoli sono felice. Tutt’altro che il compiacimento del narcisismo, ancora meno il sollievo effimero dello sfogo diaristico. Piuttosto è un piacere etico, la fatica paga e feconda di un progetto concluso che, muovendo dalle radici fonde dell’alfabeto, dalla materia di segni e significati del passato, riplasmandola nell’oggi e nel sé ne fa nuovo fertile sostrato. Nulla nel mio lavoro di scrittura nasce o procede a caso, come nella ricerca rigorosa e amorosa della mistica è nella costrizione che la parola cerca la strada.
In questo lavoro, la costrizione amorosa sono state le architetture e gli spazi, il plasma della nascita la loro arcana corposa bellezza. È dal lucore e dall’ombra delle pietre, dalla disposizione e dal risuonare degli spazi, dalle tracce di memoria sedimentate e radicate che, affidandosi duttili al genius loci, le creature di Dodecapoli sono sbocciate e si sono disposte. Coniugando, a quei luoghi, strettamente il proprio sé, la nuova seppure ancestrale soggettività di vestali del nostro tempo. Umile ricettivo mezzo, la mia scrittura, con simile contemporaneità, ha ascoltato e guardato. Si è appoggiata, per meglio vedere, a un occhio fotografico.
Alla fine del percorso, dopo il viaggio, per un nuovo viaggio iniziatico il piede invita ad andare.
Laura Ricci
“Non sono mai uguali a quello che si vede” afferma desolatamente il protagonista del film di Wim Wenders “Alice nelle città” che percorre le strade della provincia americana alla ricerca di storie che si vedono con le foto, colte attraverso lo sguardo purodell’obiettivo.
È una delle riflessioni più interessanti che siano state pronunciate sul risultato dell’atto del fotografare, ed è il vero stimolo per chi attraversa i luoghi con la macchina fotografica, perché come ha scritto Georges Perec lo spazio è un dubbio, un’ipotesi: non è sufficiente vederlo, conta la qualità dello sguardo che deve scoprire, comprendere, elaborare, conta farlo proprio senza tradirlo.
Ciò che si crea all’interno del fotogramma è dunque il risultato della personale relazione con lo spazio quando, per usare un’espressione cara a Cartier Bresson, l’occhio, la mente e il cuore sono sulla stessa linea.
Seguendo lo svolgimento dei racconti di Dodecapoli, le città si sono succedute nella mente lasciando immagini vive, che a poco a poco si sono trasformate in linguaggio visivo attraverso composizioni di volumi, di pieni, di vuoti, di prospettive e di materia, di atmosfere e di colori. Luoghi, allo stesso tempo, reali e immaginari dove le protagoniste dei racconti potessero liberamente agire e trovare il loro sentiero.
Ambra Laurenzi