Ci sono bevande che non sono semplicemente bevande o, come ogni prodotto globalmente diffuso, l’esito di sistemi di complesse e floride economie, ma che, per il loro impatto emotivo e gustativo, diventano pozioni preziose avvolte da riti e significati molteplici; bevande di ogni giorno, ma leggendarie e di antica data, che hanno fatto germogliare e continuano a far fiorire tradizioni culturali e di costume affascinanti e diversificate. Il caffè, indubbiamente, è una di queste: gustato in varie miscele e diverse preparazioni in una vasta area del globo, trova a Trieste, per quanto riguarda l’Italia e non è esagerato dire l’Europa, la sua indiscussa capitale. Lo dice, con decisione e a ragione, il titolo della bella esposizione “Il gusto di una città. Trieste capitale del Caffè” che, in collegamento con EXPO e con il Cluster del Caffè a Milano, è stata allestita nel vasto e suggestivo spazio del Salone degli Incanti dal 22 luglio all’8 novembre 2015. Trieste, in effetti, è stata e continua a essere, come la mostra ben evidenzia, un importante fulcro della storia e della cultura del caffè: per costume e tradizione, e per quella consolidata economia che ha permesso, al costume e alla tradizione, di radicarsi.
Il destino dell’espansione di Trieste è segnato dall’azione di una sovrana, Maria Teresa d’Asburgo, che, completando l’intuizione di “Trieste porto franco” avviata nel 1719 dal padre Carlo VI, finisce di disegnare con decisione, con un’apposita istruzione imperiale di cinquantacinque paragrafi, le linee di sviluppo per la città e i suoi commerci. L’ampliamento del porto, un’imponente rivoluzione urbanistica e, soprattutto, la libertà di residenza, di lingua, di culto e di aggregazione per qualunque etnia, richiamarono in quel lembo di territorio adriatico commercianti, trafficanti e imprenditori da luoghi vicini e lontani, portando in breve la popolazione da seimila a trentamila abitanti, dando alla città un’impronta decisamente cosmopolita e facendone, per il discorso che qui interessa, un fiorente porto e un punto nevralgico per lo smistamento del caffè nella Mitteleuropa. È da questo traffico di innumerevoli sacchi di prodotto sulle banchine dell’emporio che nasce a Trieste, nel tempo, una profonda e consolidata cultura del caffè, basata sull’imprenditoria, sulla ricerca scientifica e della qualità, sul gusto e, come in altri luoghi d’Europa, su quei sodalizi culturali che intorno alla condivisione della tazzina di caffè si formano e si incentrano: popolari o aristocratici, borghesi o ribelli, spesso intrisi di patriottismo e di politica.
Se la prima caffetteria del mondo nasce a Istanbul nel 1554 vicino al porto di Tahtakale, ben presto seguita, nella capitale ottomana, da altre che fanno della pregiata bevanda il gradito pretesto per trovarsi insieme a giocare a scacchi, a fare poesia e musica, a conversare, in Europa bisognerà aspettare il secolo dei lumi per avere “Il caffè” nell’accezione di luogo culturale, di relazione e di affari; né è un caso che venga chiamato proprio “Il caffè” il periodico illuminista fondato a Milano da Pietro Verri nel 1764. Sorgono così, tanto per fare solo alcuni celebri nomi, il Procope a Parigi, il Caffè Florian a Venezia, il Lloyd’s Coffe House a Londra, il Caffè Greco a Roma, il Gambrinus a Napoli.
Nella mostra di Trieste, senza dimenticare i luoghi kult già citati, vecchie foto e allestimenti grafici fanno rivivere le atmosfere dei numerosi caffè storici nati nella città in epoca mitteleuropea; gli stessi che, oggi come allora, fanno della tazzina di caffè un’occasione per intrecciare relazioni, scambiare opinioni, discutere, oppure leggere, scrivere, osservare, aprire una parentesi di tempo per sé: il Tommaseo, il Caffè San Marco, l’Urbanis, il Torinese, la Stella Polare, il Caffè degli Specchi. Accanto ai templi eleganti degli intellettuali e dell’agiata borghesia, anche locali più popolari, spesso assimilabili a punti di degustazione e di vendita, dove il caffè si consumava e si consuma con meno riti ma con altrettanta consapevolezza e arguzia. Perché non solo i triestini sono i maggiori consumatori di caffè in Italia (10 chilogrammi a testa l’anno, a fronte della media nazionale pari alla metà), ma probabilmente anche i più esigenti e fantasiosi. Nessuno chiede genericamente “un caffè” a Trieste, se non giusto i turisti più sprovveduti: si va dal nero, al cappuccino che non è un cappuccino, al macchiato che non è il classico macchiato, al gocciato, al solo apparentemente misterioso capoinbì (cappuccino in bicchiere), con tutte le varietà sintetico-aggiuntive dei decaffeinati, lunghi, corretti, doppi, ristretti e chissà quanto altro ancora. Insomma, una vera e propria lingua del caffè destinata, come tutte le lingue, ad arricchirsi e variare, tanto che in quel gustoso, utile, amorevole libricino della sua “Trieste sottosopra”, Mauro Covacich si chiede: “Trieste è una città di scrittori perché qui si è portati a giocare sui nomi delle cose, caffè compreso, oppure qui si gioca sui nomi delle cose perché siamo in una città di scrittori?”
Ma tutta questa bella, vivace atmosfera triestina dei caffè e del caffè non esisterebbe senza la lunga e accorta filiera della materia prima. Per questo l’allestimento della mostra al Salone degli Incanti dà conto del viaggio, degli imballaggi, del traffico transoceanico delle bacche; racconta le fasi della trasformazione che porta dalla pianta, al chicco, alla torrefazione, alla trasformazione della bevanda. È anche possibile gustarlo, offerto in vari tipi di miscele nello spazio bar insieme agli assaggi della tradizione pasticciera della Mitteleuropa; così come è possibile visitare virtualmente, grazie a dispositivi multimediali, il Cluster del caffè triestino all’Expo internazionale meneghina.
Al di là di questa vasta esposizione temporanea, forse preludio di un prossimo grande museo mondiale del caffè a Trieste – almeno questo è stato l’auspicio di Andrea Illy all’inaugurazione della mostra, che vede il marchio della sua azienda insieme all’impegno di Regione Friuli Venezia Giulia, Comune e Camera di Commercio di Trieste – esiste da tempo in città, visitabile su prenotazione, un piccolo Museo del Caffè, allestito in alcuni spazi del Museo Commerciale di Palazzo Dreher, in Via San Nicolò 7.
Ideatore e curatore di questa sezione, inaugurata nel marzo 2001 all’interno della Torre del Lloyd e poi trasferita in tempi successivi al Museo Commerciale dopo la sua istituzione nel 2005, è Gianni Pistrini, triestino talmente edotto e appassionato del caffè da essere, di tale miscela, assaggiatore professionale. Iscritto nell’Albo della Camera di Commercio locale come “Perito esperto”, e come “Arbitro di qualità” alla Camera arbitrale di Genova, docente in vari Master per l’associazione internazionale Slow Food e per altre realtà, in questa sua professione Pistrini analizza a livello sensoriale i diversi prodotti mono-origine e predispone le ricette per la preparazione di miscele di torrefatto. Giornalista, ha scritto numerosi articoli sul tema del caffè e delle caffetterie e un libro per i cinquant’anni di attività del Gruppo Triveneto Torrefattori di Caffè, per cui è stato per un decennio direttore responsabile della testata “Notiziario Torrefattori”. Data la sua esperienza sull’argomento, viene inoltre scelto spesso come correlatore per tesi di laureandi dell’Università di Trieste su questo tema.
Ho avuto la fortuna di essere guidata dalla sua competenza, dalla sua gentilezza e dal suo garbato brio triestino nella visita del piccolo, interessante museo che è riuscito ad allestire, dove sono esposti oggetti che provengono prevalentemente da donazioni private: tazzine appartenute agli storici Caffè cittadini, tostacaffè, macchinette per le diverse preparazioni della bevanda, oggettistica tecnica per la verifica qualitativa e merceologica del caffè crudo.
Il cimelio di cui Pistrini va più fiero è una tessera annonaria datata 1917, in lingua tedesca, italiana, croata e slovena, grazie alla quale le famiglie triestine, al tempo della grande guerra, potevano richiedere la propria razione mensile di caffè pari a 250 grammi. Non a caso questo oggetto è presente, come dono di Trieste, nei musei europei con i quali è riuscito a creare una rete di gemellaggi: uno ogni due anni, in occasione della manifestazione biennale TriestEspresso Expo, a cui Pistrini e il museo collaborano attivamente, e la cui prossima edizione è prevista per ottobre 2016.
I gemellaggi finora intessuti con realtà incentrate sulla valorizzazione e la musealizzazione della storia e della cultura del caffè sono stati nel 2004 con il museo della Probat Werke di Emmerich in Germania, nel 2006 con Caferama a Zuoz cantone svizzero dei Grigioni, nel 2008 con un Museo del caffè di Vienna e nel 2010 col francese Museo dell’Avventura Peugeot, marchio noto per le sue automobili, ma famoso un tempo per le sue lame e i suoi macinacaffè, nel 2012 con il Museo del Turismo e della Ristorazione di Budapest, nel 2014 con il Museo della Douwe Egberts nella città olandese di Joure; per il prossimo 2016, inoltre, sono già in corso contatti con una successiva realtà espositiva da far entrare nel network.
Approfitto di questa occasione qualificata per chiedere a Gianni Pistrini di colmare qualche curiosità più specifica, suscitata in me dalla visione della mostra al Salone degli Incanti.
“Quando pensiamo a Trieste e al suo caffè – domando – ci viene inevitabilmente in mente il marchio illycaffè. Esistono altre aziende di rilievo, che magari nel tempo sono state assorbite e qual è la situazione di questa importante economia triestina ad oggi?”.
“Certo, ve ne sono alcuni. Il più significativo è il marchio Hausbrandt che sorse nel 1892, ora non più di proprietà della famiglia. Gli Hausbradt furono una vera dinastia di caffettieri triestini che hanno fatto la storia del prodotto italiano, anche se alcuni hanno mantenuto la loro professione forgiando nuovi marchi. Attualmente la ditta Hausbrandt ha sede nel vicino Veneto, acquisita da un’altrettanto importante stirpe nazionale quale gli Zanetti. Dobbiamo ricordare un altro marchio: Cremcaffè. La sua importanza era tale che il fondatore, Primo Rovis, espandeva i suoi commerci fino ai paesi balcanici. Da alcuni anni il marchio è stato acquisito dalla Julius Meinl di Vienna”.
“Suppongo che tutte le fasi della coltivazione e della lavorazione del caffè siano importanti per avere un buon prodotto: coltivazione, raccolta, estrazione del chicco, trasporto, miscelatura, tostatura, confezionamento. C’è tuttavia, in questo processo, una fase più delicata e fondamentale delle altre per avere un prodotto di qualità?”.
“Tutte sono estremamente importanti, con il rischio che, se una sola di esse non venisse eseguita con cura, inficerebbe le altre. Nel processo menzionato, è necessario riportare l’ultimo anello, che è l’operatore finale se la preparazione è quella pubblica, oppure la nostra persona se l’utilizzo è quello domestico. Ognuno di noi infatti può realizzare una bevanda suadente e corroborante o, viceversa, una emerita “ciofeca” per dirla alla napoletana! Dipende da quanta cura poniamo nella preparazione!”.
“Gelsomino, cioccolato, agrumi, caramello, pan tostato, miele… sono alcune delle note aromatiche che si possono rintracciare nel degustare un buon caffè, ma mi sembra di capire che ve ne sono molte altre. Come si formano, come si integrano nelle miscele questi aromi e in che misura contribuiscono alla qualità o alla rarità del prodotto finale?”.
“Dovremmo fare un trattato sull’argomento, in quanto liquidandolo con due o tre parole sviliremmo il discorso. Per capirne la complessità, basti dire che sono un migliaio le molecole odorifere che si ottengono nella fase di cottura dei chicchi. È proprio nella fase di trasformazione del “verde”, il caffè grezzo, che si formano questi nuovi composti aromatici da noi tutti particolarmente apprezzati. Pensiamo che il caffè non è una derrata essenziale al nostro organismo. Di conseguenza, la sua assunzione deve essere buona e gradevole”.
“Le piccole torrefazioni, a Trieste come altrove, stanno scomparendo a vantaggio di una più spinta industrializzazione. È un bene o un male, e semmai da quali punti di vista?”.
“Ogni fase di mutamento porta con sé aspetti positivi e negativi. Sta nei diversi livelli saper cogliere e, se vogliamo, approfittare della situazione. In questo, proprio le aggregazioni di aziende di trasformazione ne sono un chiaro esempio: infatti siamo passati da poco meno di un migliaio di piccole, piccolissime e micro aziende di torrefazione, ancora attive fino agli anni Novanta del secolo scorso, ad alcune centinaia e la fase di concentrazione è ancora in atto. Il tutto non è percepito dal consumatore, in quanto egli trova sempre il proprio marchio preferito, ma accade che il trasformatore del verde in tostato è poi un’unica azienda che pone in vendita il prodotto mantenendo solamente la confezione”.
“Lei è un assaggiatore di professione, un’arte che richiede sicuramente studio e impegno. Esistono, tuttavia, dei presupposti necessari o innati per esercitare questa arte, e semmai quali sono?”.
“Più o meno tutti siamo dotati di papille gustative e un organo olfattivo in grado di distinguere il buono dal pessimo. Ecco, facciamoli funzionare questi organi di senso, e non beviamoci tutto quello che ci viene propinato. Ovviamente, al consumatore finale non viene richiesto di definire l’origine della materia prima, né la composizione della stessa. Son certo che un approccio rivolto alla qualità del prodotto non potrà che far bene al mercato: responsabilizzando l’intera filiera produttiva fino all’operatore finale nei pubblici esercizi. A questo punto sorge spesso un ovvio esempio: come noi rifiutiamo un calice di vino che presenta un gusto di tappo, così dovremmo rifiutare un caffè espresso con sentori sgradevoli oppure preparato male”.
“Cosa consiglierebbe a dei profani per cominciare a gustare al meglio le molte e grandi virtù del caffè?”.
“Ricordo una pubblicità di diversi anni addietro, riferita ad altra merceologia, che citava una frase similare: ‘mai comprare a scatola chiusa’. Ecco, questo dovrebbe esser il leitmotiv che deve contraddistinguere l’approccio. In commercio troviamo una gamma pressoché infinita di caffè miscelati e in purezza (cioè provenienti da un singolo paese produttore); di tostature a tonalità scure e chiare; da utilizzarsi in preparazione espresso, moka, filtro. Ognuno può certamente trovare in questa ampia gamma di offerta il prodotto che fa al caso suo. In ogni caso, per un approccio più organico, ormai sono parecchi i corsi che vengono organizzati in tutto lo Stivale da parte di aziende del settore e non. In questo, l’associazione Slow Food è stata fra le realtà che si sono maggiormente attrezzate, proponendo i “Master of food”, che altro non sono che dei corsi indipendenti di approfondimento della materia alimentare. Sono stato uno dei docenti che ha portato l’esperienza caffè in Giappone, riscuotendo ampi consensi anche in quel lontano Paese del Sol Levante”.
“In commercio troviamo caffè che riportano in etichetta parole come Arabica e Robusta, Come districarsi?”
“Anche questo è il bello della varietà! Infatti, si tratta della specie botanica della Coffea Arabica e Coffea Canephora, meglio conosciuta come Robusta. Ecco un’ulteriore varianza. Il torrefattore italiano si è specializzato nella sapiente miscelazione delle due specie, così da ottenere un prodotto unico e riconosciuto a livello globale. Vero è che è errato osannare tutto l’Arabica e penalizzare tutto il Robusta. Sarebbe come affermare che tutto il vino bianco è eccellente e quello rosso non è allo stesso livello. Ogni origine ha sue ben definite caratteristiche peculiari e sensoriali. A noi apprezzarne i diversi benefici effetti. Da un po’ di tempo a questa parte, infatti, vengono riconosciute al caffè proprietà ‘nutraceutiche’, cioè in grado di nutrire il nostro organismo apportando dei benefici effetti a tutto il suo insieme”.
“Da un po’ di tempo a questa parte troviamo in commercio dei prodotti confezionati a unico consumo, come orientarsi?”.
“Infatti, il monoporzionato sta registrando degli incrementi a due cifre. Si tratta di cialde e di capsule usa e getta. La filosofia da seguire è similare alla precedente, in quanto cialde o capsule altro non sono che dei semplici contenitori entro i quali troviamo le miscele di cui abbiamo parlato”.
Cercherò di seguire, da neofita inesperta, i consigli di Gianni Pistrini. Per me, da tempo innamorata dell’ancor più antica bevanda del tè e dei suoi gentili aggraziati riti, questo è stato l’anno della scoperta del caffè; un anno di nuove rotte, è il caso di dire.
Prima la Turchia e Istanbul, dove mi sono avvicinata alla cultura e ai significati del caffè turco; ora Trieste, città non meno affascinante, multiculturale e intrigante dell’avvolgente megalopoli del Bosforo. A condurmi, in entrambe, sono state le relazioni interpersonali e la vita quotidiana, la lettura o la rilettura dei grandi scrittori di queste magiche città e, nell’una e nell’altra, due belle e rare mostre: “A drop of pleasure. 500 years of Turkish coffee”, in corso a primavera a Topkapi Palace Museum; e ora questa ricognizione di “Trieste capitale del caffè” che, insieme al piccolo museo della Camera di Commercio triestina e alle relazioni in Europa che il suo curatore ha saputo intessere, hanno arricchito una consapevolezza nuova che, in me, comincia appena a sbocciare.
Dovrò capire e documentarmi maggiormente, ma mi sento in territorio amico. La stessa filosofia, in fondo, nell’approccio al tè e al caffè, almeno nei significati più metaforici: la stessa cura del fare bene, la stessa sollecitudine della relazione e del rapporto con l’altro, lo stesso soffermarsi, se si sorseggia in solitudine, sulle pieghe del pensiero e dell’anima. Per concedersi qualche salutare autorizzazione a indugiare, a centellinare la vita in lentezza e in agio: al nostro abituale tavolo, o a quello più rumoroso, ma non meno attraente e necessario, dei caffè di qualche più o meno grande, avvincente città.
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