2 novembre 2004
di Laura Ricci su Fabruaria
È in modo non asettico, relazionale che mi accingo a scrivere questa concentrata biografia, nata per ricordare una donna di spicco di una storia orvietana talmente recente da non avere ancora, della storia considerata più nobile, la parvenza; e tuttavia altrettanto importante per fissare, di chi ancora ricordiamo, non solo il lato agiografico, ma la minuta quotidiana sostanza. Ho pensato a lungo a quale poteva essere l’esordio, tanto più a lungo perché non sono di origini orvietane: mi sono detta, anche per questo, che non poteva essere impersonale. È un onore e un premio percorrere le umane tracce di una città che amo e dove, con altrettanto amore, mi ritengo accolta; ma al tempo stesso un rischio, in cui spero di avere la necessaria doverosa umiltà di pormi in ascolto: dei testimoni, dei familiari, delle tracce ancora vive. Ho ascoltato per provare a capire, io che non l’ho conosciuta direttamente, chi era Maria Crespi.
La signorina Crespi abitava in Via Maitani, in un grande, per alcuni misterioso appartamento dello stabile che ha il privilegio di fronteggiare il Duomo. Lì si è spenta il 21 giugno del 2002, alla quasi leggendaria, per molti irraggiungibile età di 102 anni, che le era valsa una visita del sindaco per il suo centesimo compleanno e la rara centenaria medaglia del Comune di Orvieto. Mi raccomando, fa le cose per bene, aveva detto al sindaco Cimicchi in quell’occasione: lei che, le cose per bene, aveva cercato di farle sempre.
Nella casa di Via Maiatani però non era nata; piuttosto, il 23 febbraio 1900, in un più modesto stabile di Via San Angelo 24, dove il padre Alcide, di origini bergamasche, era giunto, con la moglie Ida Sordini originaria di Tavernelle, per svolgere il suo lavoro di medico presso l’ospedale di Orvieto. Entrare nella famiglia Crespi non era facile: stimato, a tal punto amato da non dover temere neanche alcuni briganti che allora infestavano le campagne e che piuttosto che depredarlo lo scortavano, Alcide Crespi viveva in modo socialmente disponibile e generoso, ma chiuso e appartato per quanto riguardava la famiglia; e questo fu, successivamente, lo stile dei suoi figli, 4 maschi e 3 femmine. Delle tre figlie Maria era quella di mezzo, per poi passare, di fatto, ad essere la più piccina, quando nel 1905 la sorellina Rosa morì, affogando tragicamente in un catino nell’orto di casa.
Degli anni della fanciullezza Maria amava ricordare le lunghe passeggiate a piedi con la famiglia – verso Cetona, Corbara, Bolsena – escursioni col pranzo al sacco, con tanta benefica stanchezza, che duravano un giorno e le avevano dato il gusto dell’aria aperta, del viaggio, di una lunga passeggiata giornaliera anche nei giorni più adulti e sedentari, delle scarpe piane e comode. E lei, che nella sua missione d’insegnamento, specie a chi non l’ha conosciuta direttamente può essere sembrata quasi austera, in famiglia ricordava ridendo le “ballerine” degli anni cinquanta, che conferivano una camminata inevitabilmente ondeggiante, così da essersi trovata, durante una gita sull’Etna in occasione degli esami di stato che amava andare a svolgere in luoghi lontani e belli, preda dei fischi di alcuni giovanotti per l’andatura decisamente sexy.
Affettuosamente chiamata “la carciofa di casa” – forse per una certa ingenuità, un certo spirito poetico che diventeranno voglia di scoperta, entusiasmo scientifico – tra una passeggiata e l’altra Maria contraddice il sia pur carezzevole epiteto, studia sodo e nel 1926 si laurea in chimica all’Università di Roma, mentre frequenta il leggendario laboratorio di Via Panisperna, di certo fondamentale per il precisarsi del suo metodo di ricerca e di trasmissione del sapere. Un’esperienza, questa nata all’interno dell’Istituto di Fisica diretto da Orso Mario Corbino, in cui intorno a Fermi – e ancora con Rasetti, Segrè, Amaldi, Pontecorvo, Majorana – per la prima volta viene attuato un nuovo modo di fare ricerca: non più un professore coadiuvato da un assistente in posizione subalterna, ma un gruppo di ricercatori aventi pari dignità scientifica. Fermi non tiene lezioni nel vero senso della parola, ma seminari spesso nella sua stanza, senza nessun orario o schema prestabilito: gli argomenti trattati nascono spontaneamente da domande dei più giovani componenti del gruppo o sono i problemi che sta studiando egli stesso in quel momento.
Comincia allora la carriera scientifica di Maria Crespi: il riordinamento del museo e della biblioteca dell’Istituto geologico universitario, studi sulle proprietà chimico-fisiche delle acque dei laghi costieri, sui paesaggi e sui centri pescherecci del Lazio, l’idoneità all’insegnamento. Di pari passo l’impegno sociale: iscritta al Partito Fascista, è fiduciaria della Gioventù italiana del Littorio, ispettrice federale nel ’40 e si interessa successivamente, in modo attivo e determinato, dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia. Ciò non le impedirà, in chissà quali frangenti, di prendere una tessera CGIL nel ’47, ritrovata curiosamente nei suoi cassetti; o, in Consiglio Comunale a Orvieto con la DC, a dissociarsi, perché non convinta, dall’attacco all’allora sindaco comunista Gregori: la sua indole pratica amava, non importa da quali file, l’impegno; la sua mente libera non si piegava alle logiche di partito. Agli anni ‘30/’40 risalgono anche i concorsi che la portano ad insegnare in vari istituti e licei di Roma e Arpino, fino all’approdo al “Filippo Antonio Gualterio” di Orvieto dove resterà, in un appassionato appassionante percorso educativo legato alla sua cattedra di chimica e scienze, fino al 1970. Pure, lei che donando e a sua volta attingendo doveva entrare così profondamente in sintonia con la città, ricordava come avesse voluto percorrere a piedi e da sola, nonostante il padre fosse andato ad attenderla con un fin troppo costoso taxi, la strada che la portava dalla stazione alla rupe, piangendo per il mondo cittadino e aperto che si lasciava alle spalle e per le incertezze di una nuova, forse provinciale vita.
Il suo ruolo di educatrice le avrebbe portato, invece, ampie e profonde gratificazioni. Essere stati alunni e alunne di Maria Crespi ha significato, per più di una generazione, far parte di un tessuto culturale e relazionale che, dipanandosi dalla sua generosa autorevolezza, creava legami tra chi aveva goduto del suo sapere e del suo stile di vita. Il suo insegnamento comparato delle scienze, che apriva la mente ai segreti della materia, aveva sete di essere raccolto e recepito, tanto che non esitava a offrire, a chi non riusciva a stare al passo o nei periodi di esami, lezioni supplementari. Ma soprattutto si spingeva nei territori sempre proficui dell’affettività umana.
Dalla sua solo apparente solitudine, la signorina Crespi ha continuato a seguire le vicende di vita di alunni e alunne, giungendo, puntuale e silenziosa, nei momenti cruciali delle loro vite – lettere o biglietti per la laurea, i successi professionali, il matrimonio – riunendoli, intorno ai momenti cruciali della sua – il pensionamento, i cento anni – nel cerchio di memorie affettuose e quotidiane che altrimenti si sarebbero disperse. E pacchi e pacchi di lettere, appunti, pensieri, annotazioni testimoniano, nei suoi cassetti, delle sue intense vissute amicizie.
Poco si sa, per lei, dell’amore per gli uomini, che pure, in un’umana biografia, non può essere dimenticato. Del tutto leggendaria e inesatta, a detta dei familiari, l’ipotesi di quel fidanzato morto in guerra che sempre alunni e alunne le hanno attribuito; piuttosto, in gioventù, l’affettuoso, forte, molto epistolare sentimento per un lontano parente; e poi chissà, qualche segreto particolare rapporto che, con grande sollievo dei parenti, aleggiava in un suo ironico pacato dire: non crediate, qualche peccatuccio l’ho avuto anch’io!
Mi sono chiesta, percorrendo le intimità della sua casa insieme ai nipoti – Enrico e Roberta che ringrazio – che cosa, di questa donna eccezionale, in particolare mi affascinasse. Credo, al di là dell’esemplarità sociale, il suo voler partecipare a tutti gli aspetti, anche minimi, della vita – la vendemmia in campagna, la smielatura, le marmellate, i dolci – la manualità, l’interezza. E quelle sue scarpe sempre piane soprattutto, da esploratrice, che così bene parlano dell’ansia di profondità che appartiene alla poesia, che lei amava, e alla scienza.