Paul Valéry affermava, tra i molti pensosi lampi che con seria provocazione ha lanciato, che si dovrebbe andare nellimmensa, pregevole sommatoria di un grande museo per vedere una sola opera: soffermarsi e cercare di carpirne il segreto. Era un parco, un essenziale, a suo modo un asceta: sapeva che per entrare nel profondo bisogna rinunciare alla quantità.
Penso a questa boutade, peraltro fatta da un esperto – era membro, nel suo Paese, del Consiglio dei Musei nazionali – ogni volta che, in un museo, un’opera tra le molte e molto pregevoli che in ogni museo naturalmente sono, mi immette nella sua totale fascinazione; ossia: mi coinvolge, mi emoziona, mi rapisce, mi svela qualcosa di sé e di me, in qualche modo mi regala il suo segreto. Non accade così spesso, ma accade. E forse Paul Valéry aveva ragione anche perché, se accade, in ogni museo non avviene comunque più di una volta.
Non è per tutti lo stesso luogo, la stessa tela, la stessa statua. Le epifanie hanno strati diversi e differenziati: è comunque qualcosa per cui diciamo: “Ecco, solo per questo, anche solo per questo è valsa la pena essere qui”.
Per me, una delle rivelazioni più fonde, un’emozione-fascinazione fortissima è stato lincontro con l’Annunciata e l’Angelo annunciante di Francesco Mochi, gruppo scultoreo ospitato nel Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto, attualmente nella sede di Sant’Agostino. Se, più viaggiatrice che residente di Orvieto quale sono, avessi percorso anche mille chilometri e oltre per raggiungerli casualmente, solo questo sarebbe bastato a farmi ritenere appagata dal viaggio.
Lei è lì, una Vergine annunciata come non se ne sono mai viste, del tutto lontana dalla ieratica innocenza di ogni altra Annunziata scolpita o dipinta. Non un’ignara, stupita, ingenua, inconsapevole adolescente: più Visionaria che Vergine lei sa. Quel suo volto drammatico, quello sgomento, quello sguardo increspato, doloroso, conoscono già quello che sarà il dolore della Madre. La Madre che è già in quel suo corpo: formoso, maturo, possente, una maternità consumata più che da accogliere.
Maria è lì, sorpresa e impaurita, sembra quasi difendersi, resistere al turbinio dell’angelo: è come se sapesse quale fardello dovrà sostenere. Mater prescelta, futura mater dolorosa. E lui, lAngelo annunciante, nel turbinio delle sue vesti, nell’inarrestabile posa, non demorde, indica: come nei reiterati versi danteschi della “Commedia” vuolsi così colà dove si puote. Resistere non è consentito: l’angelo vorticoso, imperioso, blocca la donna al suo destino, senza scampo ne decreta la maternità sofferta.
Tutto questo potremmo spiegarlo con la storia dell’arte, con il superamento del Manierismo, forse con la sacra, sensuale perversione del Barocco. Francesco Mochi gli appartiene (Montevarchi 1580 – Roma 1654), anzi ne è anticipatore. E l’Annunziata e il suo Angelo furono eseguiti tra il 1605 e il 1608, per incarico della famiglia Farnese, per essere posti – cosa che non fu – ai lati del Coro della Cattedrale: per questo sono così inscindibili, così dolorosamente complici.
Potremmo spiegarlo, ma in questo contesto non occorre. La fascinazione è come la grazia, non ha bisogno di enunciazioni troppo logiche: semplicemente “è”, e è poetica.
Se ti interessa approfondire le immagini puoi vedere anche il video di www.inorvieto.it e ascoltare questo racconto dalla mia voce.