Menton o, come dicevamo e diciamo in Italia, Mentone, il primo luogo di Fancia dopo Ventimiglia, la prima perla della Costa Azzurra. Non si pensi che pochi metri di frontiera non incidano, è l’atmosfera che fa la differenza e, pur avendo elementi in comune con la Liguria, Menton è decisamente France Méditerranéenne.
In costa azzurra torno spesso, e a Mentone ho trascorso un mese in solitudine per scrivere, almeno in prima versione, i racconti di “Dodecapoli”, per dare un primo ordine alla scrittura che urgeva. Vi racconto Menton, dunque, con una selezione di foto e attraverso qualche stralcio dell’ultimo racconto di Dodecapoli, Margherita e l’arcangelo guerriero, che qui è ambientato.
Margherita e l’arcangelo guerriero
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Aveva desiderato, già da febbraio, il suo maggio a Mentone: quell’angolo pieno di ambiance, stretto tra le colline e il mare, a pochi passi dalla frontiera, appena Francia non più Italia. Lei aveva bisogno di cambiare nazione, pelle, lingua per staccare, aveva bisogno di diventare un’altra. Un’altra che era sempre la stessa, ma che viveva in modo diverso. Il tempo si dilatava, lontano dal suo concitato lavoro le ore sembravano più lente e lunghe, l’anonimato la riposava.
Bonjour Madame, est–ce que je peux vous servir? En quoi je peux vous aider Madame? Au revoir Madame! À tout à l’heure Madame! Bonne journée, Madame! Bon Dimanche!
L’anonimato la riposava e, nella nuova lingua, la distanza si faceva più vasta.
Sì, aveva programmato quel soggiorno già a febbraio. Sapeva che, a maggio, sarebbe stata tremendamente stanca. Il suo lavoro era in pratica senza sosta, non c’era sabato, non c’era domenica; nel week end, giusto un ritmo un poco più lento nel quale, come nella notte, si ritagliava il tempo per scrivere. E così il suo lavoro creativo – tagliato, sminuzzato – procedeva a fatica e a singhiozzo. Non ne portava i segni, no, la sua scrittura di quei forzati traumi: bastava che lei si mettesse lì, concentrata al suo tavolo, e la parola fluiva immediatamente, un fiotto piano e limpido, tale ne erano l’arretrato e l’urgenza. Ma un attacco, le frasi, un passaggio la aggredivano, con la loro affollata presenza, tra ogni occupazione. Riempiva la borsa di post–it e foglietti, la casa di appunti sparsi sulle buste di inviti e bollette, tanto era il timore di dimenticare un lampo, un pensiero, un’ispirazione. La mente, insomma, procedeva ben più veloce del tempo concesso alle sue personali cartelle: un fastidio e, al tempo stesso, un invadente paradiso. Le capitava, persino, di imbattersi in arcani versi, vergati a penna su qualche foglio riciclato… di chi erano? da dove, da quale libro, a che fine li aveva estratti? Ma no… erano suoi quei versi, da perfezionare e assolutamente inediti, li aveva appuntati da tanto di quel tempo da averli, quasi, dimenticati. Eppure bastava che si mettesse lì, al suo tavolo, concentrata… e tutto nasceva, da dentro, come per incanto, le parole trovavano quasi da sole la strada, procedevano, arrivavano calme al loro luogo.
Sì, aveva programmato quel soggiorno già a febbraio, perché a primavera inoltrata sarebbe stata sicuramente stanca, perché uno stacco ci voleva dopo l’inverno, perché non amava il mare in estate, perché voleva finire il suo libro, perché a maggio si stava sicuramente bene a Mentone. Prima dell’alta stagione, prima dell’invasione delle crociere e dei turisti, in pieno naturale rigoglio, mentre il giorno viaggiava verso la luce lunga del solstizio. Una vacanza creativa… si sarebbe riposata e, al tempo stesso, senza più interruzioni avrebbe finito il libro. Non avrebbe dovuto dimenticare i foglietti, i post–it, le buste, gli sparsi appunti. Li avrebbe messi in una tasca dello zaino, insieme agli oggetti più indispensabili e preziosi. In valigia no, non si sa mai, in aeroporto il bagaglio si poteva perdere… e tutto avrebbe potuto ricomprare – biancheria, scarpe, creme, pantaloni, magliette – tranne che quelle tracce disordinate, quelle faticate bozze.
Scrivere era una strenua, ostinata Resistenza: le veniva da pensarlo proprio così, quel suo atto creativo, con una bella erre maiuscola. Resistere al sonno, innanzi tutto: quando stanca dei ritmi sostenuti del lavoro, dei tempi concitati, delle relazioni umane non sempre semplici della giornata, a tarda sera innalzava una barriera alle occupazioni che continuavano a incalzare pressanti e indiscrete; quando, nel cuore della notte se non era proprio stremata, lasciava finalmente liberi i fili di quelle invadenti trame. Resistere alla volgarità, perseguire quelle sue tessiture di piccola, minuta bellezza: scovarla mostrarla, la bellezza, nell’alveo insospettato improvviso del quotidiano. Resistere alla banalità: cercare, cogliere momenti originali, preziosi; incastonare la pura gemma della parola in un granello di senso. Resistere all’odio, alla prevaricazione, alla violenza: nient’altro che con la parola gentile, con la dura pietra della parola logica. Resistere al grigiore, alla tristezza: spargendo il polline raro, dorato dello sguardo che riesce a fermarsi e a vedere. Resistere al consumo e al superficiale eccesso, alla trappola della persuasione e della retorica: resistere con il silenzio vuoto dei santi, con la cura che spoglia e scarnifica il superfluo.
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Sì, aveva molto desiderato quel tranquillo soggiorno a Mentone. Andare in un luogo che si conosce piuttosto bene, abbastanza per non esserne distratti. Fermarsi, per ascoltare senza trambusto il cuore, in un luogo che si ama. E quel luogo, lo aveva sentito in una mattina gelida di febbraio, quel luogo non poteva essere che Mentone. Il borgo ocra, arrampicato, protetto che, tra i due golfi, aveva rinnegato i Grimaldi; la città giardino delle palme, dei fiori tropicali, degli agrumeti, dominata dalla rosea barocca sagoma della Basilica di San Michele Arcangelo. Mentone la discreta, la familiarmente bella, arroccata sul Vecchio Porto con il suo popolare primitivo borgo, adagiata verso Cap–Martin sul lungomare sobriamente mondano di fine Ottocento. Mentone dai trecentosedici giorni di sole, la Citronnerai, la città giardino dal clima più dolce d’Europa… anche se non era più così, se non erano più così lunghe e decise né la mezza né la bella stagione. E in pieno maggio, anche a Mentone, l’aria era troppo fresca e, tra intermittenze di sole, continuava a piovere.
Aveva trovato, in meno di un’ora, un piccolo appartamento su internet – uno studio, come si usa dire da quelle parti – nel giro di due ore, tramite mail, lo aveva prenotato: Avenue Félix Faure, rue piétonne. Tra le foto in mostra dell’home page quel piccolo, intimo ambiente le era subito piaciuto: un’aria popolare, romanticamente vecchiotta, struggentemente retrò, appena dimessa; una parvenza calma, con le comodità ma non troppe, confortevole ma senza lusso. Palazzetto aranciato, persiane verde salvia, interno panna e turchese, domesticamente riadattato; e persino, su un cortile interno, un terrazzino con tanto di fiori che scopriva la collina; col sole pomeridiano, sempre che il sole ci fosse. Le era subito piaciuto: nel centro decoroso del Sei–Settecento, l’epoca signorile dei bei palazzi, delle piazzette, dell’espansione; a due passi dal mare, non lontano dal Bastione e dal Vecchio Porto, dall’arrampicata ansante di San Michele, dalla veduta mozzafiato del cimitero del Vecchio Castello. Le era sembrato un luogo dove, tra l’atteso ristoro solare e qualche sana passeggiata, si sarebbe dedicata con puntuale attenzione a finire e rifinire i suoi ultimi lavori: un covo familiare, non esageratamente costoso, d’artista.
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Ed ecco, dopo oltre due settimane di nuvole quel martedì mattina si era fatto largo un sole deciso: pieno, luminoso, abbagliante. Voleva uscire presto, abbastanza per godere il blu del cielo prima che fosse minacciato da qualche nuvola in agguato. Desiderava arrivare al Parvis Saint–Michel, poi al cimitero del Vecchio Castello, per scoprire finalmente al meglio la basilica, la vecchia città, l’intera baia. Una veduta così valeva bene l’intero viaggio: non bisogna tendere al molto, bisogna tendere al grande, all’assoluto. Indossò decisa un paio di pantaloni bianchi che, con il tempo piovoso dei giorni precedenti, le erano sembrati del tutto inappropriati, una maglia a righe finalmente più leggera, una felpa a zip che, accaldata dalla salita, avrebbe potuto facilmente inzeppare nel piccolo zaino. Non protesse lo sguardo con le lenti da sole, quell’azzurro voleva proprio gustarlo tutto: blu dell’acqua, blu del cielo; al centro la città ocra, rosa, rossa, i verdi e i grigi delle imposte, le trine bianche di qualche finestra schermata. Prese la Rue Saint–Michel proprio mentre la vita si risvegliava: l’odore forte di caffè, di baguette, di croissant e di pani al cioccolato; le botteghe mezze chiuse e mezze aperte, i negozianti che cominciavano a esporre le loro merci profumate e colorate. Passò Place Clemenceau osservando con piacere l’ordine squadrato dello spazio, i grandi platani appena germoglianti e ben potati, le grige cortecce stagliate sul rosa armonioso di Palazzo Trenca de Montléon. Si arrestò, pressoché estatica, nella Piazza delle Erbe, dove il tenero verde dei platani era appena più avanzato, i gialli ombrelli dei café–restaurant già aperti in silenziosa attesa; deviò un attimo verso il formicolio allegro, abbondante del mercato. Imboccò di nuovo la Rue Saint– Michel, superò con tenera affettuosa attenzione il primo piccolo slargo della Place du Cap, dove avevano trovato posto una modesta fontanella e un grande ulivo. Arrivò all’incrocio con Rue des Logettes e gettò un primo sguardo sul mare: fermo, punteggiato dalla folla candida dei velieri ammainati del Vecchio Porto, finalmente cobalto.
Sarebbe salita dal lato di Rue des Écoles Pies per poi ridiscendere dalle rampe del Parvis Saint–Michel, in modo da guadagnare, planando, la vista del porto e del golfo; quindi, da qualche altra viuzza del borgo, si sarebbe arrampicata fino al cimitero del Vecchio Castello, e poi ancora più su, fino al Cimetière du Trabuchet. E lì, dove la Francia non aveva dimenticato di dispiegare al vento le sue bandiere, avrebbe conquistato con lo sguardo tutta Mentone: la vecchia e la nuova, l’antica e la moderna. Come in una lenta promesse de bonheur, già ne pregustava la gioia.
Arrivò alla Basilique Saint–Michel prendendola alle spalle, dallo slargo della Chapelle de la Conception. Scese i pochi gradini che la separavano dal Parvis e guadagnò un angolo ancora in ombra per osservare, ravvicinata ma non troppo, l’inconfondibile basilica simbolo, che tante volte aveva festeggiato, sfrecciante dalla ferrovia o dall’autostrada, i suoi passaggi di frontiera: non particolarmente grande, non particolarmente notevole, ma parte suprema di un insieme unico, potentemente identitario. L’aveva pagato sedicimila fiorini Charles Grimaldi, nel 1346, il dominio di Mentone; e ciò nonostante, nel 1848, Menton aveva scelto la secessione sotto la protezione della Sardegna, per essere annessa alla Francia, a dispetto dell’enclave monegasco, nel 1861. Prima di alzare lo sguardo, lo soffermò sul modesto, ma non per questo meno stupefacente mosaico del pavé di ciottoli bianchi e grigi. Dei Grimaldi il Parvis portava i segni: le losanghe delle armi di famiglia, le acca dalle forme arrotondate che inneggiavano al Principe Honoré III, che aveva voluto l’originale sagrato
Infine, come in timorosa attesa, lentamente Margherita alzò gli occhi. L’ardito Campanin si slanciava, assolutamente fuori misura, nell’azzurro intenso del cielo, lo solcava con la sua mole vellutata. Chiuse le palpebre; inspirò forte l’aria che, dalle rampe delle Sablettes, saliva con il sentore iodato del mare; si spostò verso il centro del Parvis, verso la carezza buona del sole. Invasa dalle sue traboccanti emozioni abbassò di nuovo lo sguardo, lo arrestò nella nicchia sovrastante il portale maggiore, sull’eburnea statua di San Michele Arcangelo. Brandiva in alto la spada, il bell’angelo guerriero, volta verso il grande busto di un demone che, schiacciato senza alcuna smorfia dal piede del vincitore celeste, già sottomesso, ne copriva la gamba sinistra fin quasi al polpaccio. Tutto era molto tranquillo, molto pacifico: nonostante i calzari e l’elmo, con il busto diretto verso il demone sconfitto, l’arcangelo dispiegava la grande ala su cui poggiava, armato ma senza alcun bisogno di sangue, il braccio destro. Ecco, quella lotta umana, quella quieta autorevolezza, nelle sue precedenti ascensioni al Parvis Margherita non l’aveva mai afferrata. L’arcangelo Michele sembrava guidarla, come da statuto evangelico, nella luce di un nuovo cielo, in una visione che andava oltre le apparenze abusate.
Ce l’aveva fatta. La sua gioia, mentre scendeva verso l’azzurro intenso del mare, saltellava, si dilatava, montava leggera. E chissà quanto sarebbe aumentata, pensò Margherita, quando guadagnando la Promenade du Souvenir sarebbe risalita verso il cimitero del Vecchio Castello, quando con un solo sguardo avrebbe abbracciato non una veduta oggettiva, ma lo stupore che il suo cuore non cessava di provare. Ce l’aveva fatta. Ancora una volta aveva sconfitto l’ansia del tempo quotidiano, l’agguato della banalità, della volgarità, della fretta, la sete senza misura del consumo spasmodico che non riesce più a soddisfarsi di nulla. Il suo libro era nato, praticamente era pronto. Si fermò un attimo sulla balaustra della seconda rampa, arretrò per osservare il mare senza il disturbo della strada, senza lo sgarbo delle automobili ferme lungo il molo. Sì, era nato: a Mentone come a Londra, come a Parigi, come a Bloomsbury, come a Balbec. Tutto era stato detto e tutto poteva essere ancora raccontato.